Per una  riforma della contrattazione

di Antonio Castronovi

Cgil di Roma e del Lazio

Contributo al dibattito del  XV° Congresso  della Cgil

 

 

Premessa

Le Tesi congressuali,  precisamente nella Tesi 8,  hanno offerto  due ipotesi alternative al dibattito degli iscritti sul tema della contrattazione. Apparentemente la differenza tra le due tesi ha  riguardato, in sostanza, la questione  delle regole, la necessità o meno di un accordo–quadro  che definisca i criteri di riferimento per i contratti collettivi nazionali di lavoro. Anche se non dichiarato, il riferimento è a  un Patto  sul modello del  23 luglio del 1993 .

Di questa  ipotesi di Patto, però,  nelle Tesi  non c’è traccia, per cui la Tesi alternativa  sembrerebbe mal posta. Il voto espresso dalle  assemblee di base ha dato, però, a questa Tesi alternativa un adesione significativa che testimonia di una preoccupazione, a cui il Congresso conclusivo  della Cgil sarà chiamato a dare risposte rassicuranti. La preoccupazione, mi sembra, consista  nel seguente interrogativo: che succederà al tavolo del negoziato con Confindustria e Governo dopo le elezioni quando si riproporrà il quesito? Con quale mandato il gruppo dirigente della Cgil andrà alla trattativa e al confronto?

 C’è il timore che a quel tavolo prevalgano le  spinte all’unità e alla ricomposizione delle differenze oggi esistenti nel movimento sindacale, a tutto scapito della tenuta della posizione della Cgil fin’ora contraria a mettere meno ad una revisione  del modello contrattuale che riduca il peso e la funzione  del CCNL.

Decisivo sarà quindi   il mandato  conclusivo che il Congresso darà al gruppo dirigente della  Cgil. Non ho motivi per dubitare che il Congresso  riconfermerà la tenuta della linea fin’ora perseguita dalla Cgil.

Ma  i temi con cui deve cimentarsi il Congresso e il movimento sindacale non si esauriscono in questi  pur importanti punti. Urge una ripresa di elaborazione e di discussione sulla capacità di innovare forme e contenuti della contrattazione e della iniziativa sindacale, alla luce delle  difficoltà accertate dei limiti della contrattazione di secondo livello e della capacità del CCNL di difendere il potere d’acquisto reale delle retribuzioni,  a  fronte dei processi di esternalizzazione e frantumazione della  impresa e della rappresentanza, nonché dei processi di delocalizzazione  verso paesi e territori che offrono migliori vantaggi competitivi, a partire dai regimi fiscali e dal costo del lavoro.  Riprendere questa discussione al di fuori delle polemiche congressuali sarà  vitale per il futuro del sindacalismo confederale.  È quello che provo a fare riprendendo il filo di una discussione degli ultimi mesi, pensando di dare così  il mio contributo a questo dibattito congressuale, in particolare al prossimo congresso della Cgil di Roma e del Lazio.

 

La contrattazione e la frantumazione del lavoro e dei diritti

La frantumazione crescente del lavoro e delle tipologie contrattuali  e le diversificazioni delle retribuzioni tra settori e territori nel nostro paese e a livello europeo, ci fornisce il quadro di una realtà sociale del mondo del lavoro  molto divisa e segmentata  che richiede una fase di profonda riflessione  per approntare risposte unificanti e contrastare  processi  che minano non solo l’unità del mondo del lavoro ma l’unità stessa del paese e consegna l’Europa a un futuro di divisioni e di frantumazione sociale, compromettendo, altresì,  le stese basi materiali del patto sociale  e della democrazia.

Le dinamiche della globalizzazione economica, la finanziarizzazione dell’economia e la  nuova divisione  mondiale del lavoro,   riducono fortemente gli spazi e il potere di coalizione del sindacato e dei lavoratori, stretti dalle dinamiche competitive tra le diverse aree del mondo e dalle politiche di dumping sociale e contrattuale che  le accompagnano,  anche all’interno dell’area dell’euro, come evidenziato  dalla proposta di Direttiva Bolkestein.  Urge una risposta politica, sociale e sindacale per contrastarle, approntando nuove strategie sindacali  e nuovi strumenti adeguati alla nuova fase, a partire da quelli più squisitamente sindacali, come  gli istituti della contrattazione  e della rappresentanza.

E’ aperto da tempo nella Cgil e nel paese un dibattito sulla riforma del modello contrattuale, dove l’accento viene posto sul ruolo e peso del CCNL e sulla introduzione del livello regionale  di contrattazione.

È indubbio che un contratto nazionale che difende solo i diritti dei lavoratori operanti nei settori tradizionali  e una contrattazione articolata che interessa il 30% circa dei lavoratori italiani  e che nel loro insieme non riescono a tutelare  tutti i lavori e soprattutto non incidono più  nel controllo della organizzazione del lavoro e delle condizioni e qualità del lavoro e della prestazione lavorativa, non  sono strumenti sufficientemente adeguati, così come lo sono oggi, a queste esigenze.

In particolare viene messo in discussione il  Contratto nazionale di lavoro che in tanti vorrebbero ridimensionare e ridurre a favore di un decentramento regionale di tale istituto col fine, secondo costoro, di tutelare meglio i salari dei lavoratori .

È ovvio che questo ragionamento nasconde un  imbroglio a cui nessuno di noi può e vuol credere.

In assenza di un dispositivo che renda esigibile per tutti i lavoratori l’esercizio della contrattazione

di secondo livello, è giocoforza invece, anche se non  sufficiente,  puntare al rafforzamento del ruolo del CCNL nelle politiche di redistribuzione del salario e nella contrattazione della produttività, per contrastare  la frantumazione e segmentazione del sistema retributivo in atto.

L’adesione ad un modello che rafforzi il livello territoriale viene visto, di contro,  in funzione dell’indebolimento del peso e del ruolo del contratto nazionale a favore dell’introduzione di un  federalismo contrattuale di fatto. Chi infatti persegue l’obiettivo di modificare gli equilibri contrattuali riducendo il peso e il ruolo del CCNL, intende far  assumere al secondo livello territoriale non solo la funzione di contrattazione della produttività, ma  anche quella di  difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni , che oggi è prerogativa del contratto nazionale.

In questo caso è chiaro il punto d’arrivo: un contratto nazionale che contratta un salario minimo per tutti e una contrattazione regionale di secondo livello che recupera il potere d’acquisto in funzione di indici territoriali del costo della vita e che decide della ripartizione degli indici di produttività. Avremmo così un  rovesciamento della importanza e del ruolo dei livelli contrattuali in cui inevitabilmente il contratto più importante diventerebbe quello regionale con tutte le conseguenze immaginabili. Escludendo una adesione di Confindustria ad un modello contrattuale a tre livelli,  chi teorizza l’introduzione del secondo livello regionale dice anche che deve essere superata, quindi, la contrattazione aziendale per tutti i lavoratori.

In questo caso come verrebbe  calcolata la produttività del settore a livello territoriale,  senza considerare  la produttività generale del prodotto lunga tutta la catena, di sito o di filiera,  di cui è composto il ciclo, che spesso oltrepassa i confini regionali, nazionali od europei?

La ricomposizione della catena del valore  invece rappresenta un problema con cui dobbiamo misurarci anche al fine di  riconsiderare  nella sua unitarietà il ciclo finanziario, di progettazione , di produzione, e di commercializzazione del prodotto.  Questo approccio è possibile solo se difendiamo il ruolo del contratto nazionale e soprattutto se rivediamo i criteri con cui sono individuati i settori merceologici che rientrato nei CCNL, al fine di una loro riforma, e se introduciamo il livello di contrattazione a livello di sito o di filiera, ed elementi di contrattazione almeno di  livello europeo.

Se vogliamo aggredire la rendita  finanziaria che mangia i profitti e ne impedisce una sua redistribuzione equa tra tutti i soggetti che concorrono a produrlo, occorre  riformare la suddivisione dei settori merceologici su cui sono costruiti i contratti di lavoro, e misurarsi seriamente con una riforma della contrattazione che preveda una contrattazione di filiera e di  sito, verticale e orizzontale,  allargata a tutti i comparti e le imprese di vario tipo ( servizi, appalti, sub-appalti, in contoterzi, indotto, cooperative, terziarizzate,ecc.) che concorrono alla formazione del  valore e del prodotto finale.

L’adesione  invece ad un progetto di federalismo contrattuale rivela una predisposizione rinunciataria e corporativa di approcciare ai temi del lavoro  e della rappresentanza e una subalternità economicista e localista al primato dell’impresa e del profitto e ai meccanismi che a livello nazionale e globale favoriscono il formarsi e il rafforzarsi di posizioni di rendita  finanziaria.

In questo caso è chiaro che l’obiettivo della riforma del modello contrattuale coincide con una politica dei redditi  che punta a tenere sotto controllo la dinamica salariale da rendere compatibile e subalterna ad un modello di sviluppo che penalizzi il lavoro, e basato sulla compressione dei diritti e del costo del lavoro.

 La discussione sulla crisi del Patto del 23 luglio del ’93 deve vertere invece  su una analisi differenziata delle sue varie componenti per capire le ragioni di questa crisi e cogliere invece i suoi punti di effettiva debolezza.

Sotto questo aspetto la nostra discussione sul modello contrattuale  deve obbedire alla esigenza di rafforzare la nostra capacità di rispondere alla urgenza di unificare il mondo del lavoro, di rafforzare la nostra capacità di rappresentanza  dentro una organizzazione dell’impresa, per filiere  e nel territorio, che tende a sfuggire a qualsiasi capacità attuale del sindacato di  controllo dell’odl e delle condizioni della prestazione lavorativa .

Dobbiamo con chiarezza declinare gli obiettivi e i fini della politica rivendicativa e contrattuale  a partire da una capacità di incidere sui processi di mercificazione del lavoro in atto, per portare a stabilità il lavoro precario assumendo  il contratto  a tempo indeterminato come la norma, così come indicato dalle direttive europee, e  dall’assunzione  di meccanismi certi di recupero dell’inflazione effettiva a tutela del potere d’acquisto, nonché dalla redistribuzione della produttività ai salari nel CCNL e dal pieno recupero del ruolo  di autorità salariale della contrattazione collettiva .

Il contenimento e il contrasto degli effetti della legge 30 deve essere quindi al centro  delle politiche sindacali sia a livello nazionale che a livello articolato.

 La capacità di costruire un raccordo più stretto tra politiche rivendicative e contrattuali con una azione di contrasto  della legislazione sul mercato del lavoro  diventa così una esigenza imprescindibile nel nostro modo di concepire la confederalità  insieme alla  necessità delle coerenze tra battaglia politica generale e comportamenti contrattuali delle categorie.

Ciò rende ancor più chiaro  il nesso che ci deve essere  nel nostro lavoro tra contrattazione e rappresentanza .

 La frantumazione crescente del lavoro e  le esternalizzazioni che diventano più facili e convenienti con le norme sullo staff leasing, sugli appalti e sulla cessione di rami d’azienda, accrescono la polverizzazione contrattuale e la precarizzazione dei rapporti di lavoro e contestualmente, anche  per  noi, il bisogno di procedere ad una unificazione più forte della rappresentanza sociale e contrattuale dei lavoratori .

La difesa della contrattazione collettiva e del CCNL sarà possibile solo se riusciremo ad allargare  la sua rappresentatività sociale  includendovi la variegata molteplicità di interessi del mondo del lavoro, a partire dai settori diffusi e esternalizzati, dal sistema degli appalti, dai lavori precari e a collaborazione. A prescindere dall’esito che avrà la discussione sull’abolizione o meno della legge 30,  nell’esercizio dell’azione sindacale a tutti i livelli  non ci deve essere più alcuna separatezza nella rappresentanza tra lavori tutelati e lavori precari  che la contrattazione deve unificare dentro una  strategia dei diritti. 

Gli strumenti oggi a disposizione delle imprese, resi  più convenienti dal Dlgs n. 276/2003,  consentono anche di esternalizzare  parti del core-business  aziendale laddove sono collocate le funzioni più pregiate e strategiche; oltre che di  stipulare  poi contratti di appalto con le stesse imprese che hanno acquisito queste funzioni del ciclo,  operazione prima vietata. Ciò rischia di comportare, se non efficacemente contrastata,  una accelerazione dei processo di  esternalizzazione di fasi intere di funzioni e di cicli  lavorativi non tutelati dall’art. 18 dello Statuto, esaltando la irresponsabilità sociale dell’impresa nei confronti del lavoro.

A fronte di tali processi e al fine di  ostacolarli occorre affermare, in un dispositivo legislativo che metta mano alla revisione della  legge 30,   la responsabilità “in solido” tra impresa decentrante e decentrata, fra impresa appaltante e appaltatrice,  fino a considerare, nei gruppi imprenditoriali, le singole imprese non solo corresponsabili, ma anche codatrici di lavoro.

 

La riforma del  Contratto nazionale di lavoro

Negli anni trascorsi non siamo riusciti a contrapporre a questa strategia di frantumazione dell’impresa e dei diritti una linea  efficacemente difensiva  per contrastarne gli effetti più perversi e più odiosi socialmente .

Dobbiamo a tal fine riqualificare la strumentazione contrattuale,  affrontare e risolvere il nodo della rappresentanza, rivedere il sistema di regole, a partire dal modello di relazioni sindacali introdotto nel luglio del 1993.

 Noi dobbiamo senza dubbio salvare di quell'impianto il ruolo forte e non residuale del Contratto nazionale di lavoro, abbandonando il riferimento alla inflazione programmata in favore di quella reale o prevedibile con meccanismi che devono rendere esigibile il recupero di eventuali scostamenti, e affermando la  funzione ridistribuiva delle produttività nazionale di settore  e la funzione della contrattazione articolata e decentrata.

Sotto tale profilo è da superare il doppio biennio contrattuale a favore di una cadenza triennale del CCNL  con il riallineamento entro la vigenza del contratto attraverso verifiche e strumenti che garantiscano l’effettivo recupero del potere d’acquisto eroso dall’inflazione, ponendo fine all’attuale meccanismo del secondo biennio che ostacola questa funzione e appesantisce il modello contrattuale, con tempi lunghi e scarsa certezza  sulla esigibilità del recupero,  sovrapponendosi e spesso  ostacolando la contrattazione decentrata.

La redistribuzione della produttività di settore deve tener conto della esigenza di revisione e aggiornamento degli inquadramenti professionali, ormai invecchiati,  e dei suoi parametri  salariali che oggi sono tornati ad addensarsi nei suoi  livelli più bassi, per effetto dei meccanismi di assunzione e di precarizzazione del lavoro.

Ma la nostra discussione deve procedere oltre ed affrontare il tema del superamento della estrema

frammentazione contrattuale, oltre 400 CCNL, che nel loro insieme però non sono in grado di tutelare e rappresentare l’insieme del lavoro dipendente, mentre si allarga l’area del lavoro atipico o entrano in scena nuove tipologie merceologiche che non sappiamo dove collocare rispetto alle nostre tradizionali filiere contrattuali.

Dobbiamo porre cioè al centro della nostra attenzione il tema della revisione  dei filoni merceologici  e settoriali nella contrattazione nazionale di categoria.

Le vecchie classificazioni sono di fatto superate dalle trasformazioni che hanno rivoluzionato l’impresa tradizionale per cui si fa fatica oggi a definire un lavoro secondo le nostre tradizionali categorie.

Non a caso si torna a parlare di contratto di settore o di sindacato dell’industria.

In realtà dobbiamo riconsiderare il concetto di filiera come  comprensivo di tutte le fasi che concorrono alla produzione della merce o del servizio, che la trasformazione dell’impresa ha scomposto in tante società separate in cui si  applicano tanti contratti diversi.

Una reale politica di redistribuzione della produttività deve poter considerare nella contrattazione  l’insieme del ciclo  produttivo, organizzativo e  finanziario che vi partecipa e calcolare la produttività tenendo conto di tutti i  fattori  che la compongono. La logica delle esternalizzazioni e  della frantumazione societaria fa sì che si esternalizzino i costi e si separino le funzioni   ricche da quelle povere del ciclo, si differenziano le une dalle altre anche come classificazione merceologica, per cui settori che gestiscono i profitti sono in realtà imprese finanziarie, autonome e separate  dalla componete industriale ed  organizzativa. La contrattazione sindacale tende a riguardare così  in prevalenza i settori poveri del ciclo e dove la produttività è solo quella legata al costo del  lavoro  e del grado del suo sfruttamento. La riforma dovrebbe consentire che a tutte le componenti del sistema, esternalizzate  o no, produttive e di servizi, del settore pubblico o di quello privato, che fanno riferimento all’identico  ciclo produttivo ed organizzativo della filiera, venga   applicato lo stesso contratto di lavoro e la produttività cui fare riferimento sia quella del ciclo unitario da ricomporre  nel nuovo contratto di settore o di filiera.

In tal caso si può pensare ad una riconsiderazione del ruolo della contrattazione di  Gruppo, anche a livello europeo,  come il luogo privilegiato per esercitare i diritti di informazione e  controllo delle strategie  di sviluppo e di politiche industriali delle grandi imprese, rinunciando in parte ad essere solo  un luogo alternativo dove si esercita la contrattazione salariale.

Nello stesso tempo occorrerebbe introdurre strumenti di controllo dei processi di delocalizzazione delle imprese, introducendo  nell’ambito dei diritti di informazione e consultazione dei lavoratori, procedure vincolanti  di controllo delle scelte delocalizzative delle imprese, prevedendo un adeguato apparato sanzionatorio in caso di inosservanza, considerando un comportamento antisindacale il mancato coinvolgimento del sindacato in queste decisioni.

 

Obiettivi e contenuti della contrattazione articolata e territoriale

Il secondo livello della contrattazione deve, invece,   ancorarsi al territorio e al processo produttivo ed organizzativo dell’impresa. Rispetto alla politica salariale, deve avere il compito di legare la contrattazione degli obiettivi produttivi con l’odl,  secondo parametri di produttività da contrattare a livello aziendale, superando l’esperienza degli ultimi 10 anni in cui  abbiamo ridotto la contrattazione aziendale alla elargizione di aumenti legati alla redditività, ai Bilanci, gestiti unilateralmente dalle azienda e senza intervenire sulla odl e senza partecipare alle scelta dell’impresa.

Ma ciò non è sufficiente .

La fase in cui si contrattava a livello aziendale e territoriale per introdurre flessibilità normative e salariali nel rapporto di lavoro dobbiamo considerarla  definitivamente esaurita.

Il tentativo di Federmeccanica  di condizionare oggi  il rinnovo del contratto dei meccanici ad uno scambio tra salario e  nuove flessibilità degli orari nelle imprese,  deve trovare tutto il sindacato impegnato a respingerlo.

Dobbiamo passare dalla fase della contrattazione delle flessibilità produttive alla fase della contrattazione della ricomposizione del ciclo produttivo, dei diritti e  dell’odl, realizzando le necessarie coerenze nei comportamenti contrattuali di tutte le categorie.

Il nostro obiettivo deve  quello di ridurre e limitare  il più  possibile precarietà e flessibilità, stabilendo regole e fissando  limiti al loro  utilizzo, nei CCNL e nella contrattazione articolata.

Il ricorso, che ancora oggi è oggetto di accordi sindacali non sempre adeguatamente osteggiati ed ostacolati dalla Cgil,  al doppio livello salariale per i neo assunti o del loro inquadramento a livelli parametrali più bassi,  non deve più essere avallato. Così come sono da riprovare le furbizie di ricorrere agli strumenti della democrazia sindacale per sottoporre a referendum accordi che prevedono il doppio livello salariale per i nuovi assunti . In questo caso la democrazia sindacale e la partecipazione dei lavoratori non possono essere piegate ai capricci e alle convenienze del caso, tra l’altro su materie , in questo caso i diritti dei futuri assunti, che non dovrebbero essere  disponibili  per chi non è direttamente interessato.

La contrattazione territoriale può essere un’alternativa alla contrattazione aziendale a certe condizioni e in contesti che la giustifichino e in presenza di una affidabilità e certezza sulla esigibilità degli accordi per tutti i lavoratori interessati da parte delle controparti,  nonché in presenza di regole e procedure sulla rappresentatività di chi fa gli accordi e della  loro validazione democratica .

Innanzi tutto la contrattazione territoriale, a parte quella che hanno una storia e una tradizione consolidata come gli edili e i braccianti agricoli, oppure la contrattazione regionale nel comparto artigiano, deve essere ancorata non ad un generico livello regionale di tipo istituzionale, ma preferibilmente a realtà omogenee a livello di distretti produttivi,  di bacini di piccole e medie imprese legate al territorio e a un mercato omogeneo, dove può avere senso parlare di produttività territoriale, escludendo però quelle imprese, anche piccole, che lavorano invece come indotto per le grandi imprese pubbliche o private.

In tutti questi casi, in assenza di una norma sulla rappresentanza che definisca un percorso di formazione di una rappresentanza democratica - con delegati sindacali di bacino eletti dai lavoratori, con regole e procedure per la validazione degli accordi - devono valere alcuni principi e regole da convenire fra tutti i soggetti sindacali: innanzi tutto la individuazione di controparti  rappresentative in grado di garantire la esigibilità degli accordi per tutti i lavoratori interessati; in secondo luogo la costruzione del consenso e della partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze  alla elaborazione dei contenuti della piattaforma; in terzo luogo la  costituzione di una delegazione trattante eletta dai lavoratori  delle imprese interessate; per finire una  procedura democratica certa  di validazione degli accordi con tutti i lavoratori interessati.

 

Per una  riforma della contrattazione aziendale

Nella nostra discussione sul futuro del sindacalismo confederale e di quello della Cgil in particolare, che sono legati  tra loro, dobbiamo misurarci con le inevitabili innovazioni sociali e democratiche che dobbiamo introdurre dentro l’esercizio della rappresentanza sociale e sindacale. Nel 1956 dopo la sconfitta della Fiom alle elezioni delle commissione interne alla Fiat, il compagno Di Vittorio ebbe il coraggio dell’ innovazione e dopo una dibattito e una riflessione nel gruppo dirigente della Cgil aprì alla contrattazione articolata, mettendo le basi per la successiva riscossa operaia degli anni ’60 e del sindacato dei consigli.

Credo che oggi dobbiamo avere il coraggio dell’innovazione non inferiore a quella di cui si mostrò capace l’allora gruppo dirigente della Cgil ed aprire una seria  riflessione sulla riforma della contrattazione aziendale .

Innanzitutto non dobbiamo più inseguire la frantumazione dell’impresa adeguando ad essa il nostro modello organizzativo e contrattuale ma dobbiamo proporci l’obiettivo strategico della  riunificazione del  lavoro e dei lavori  attraverso la partecipazione allargata dei lavoratori e delle diverse rappresentanze, promuovere l’ unificazione sindacale  della rappresentanza  che risponda ai processi di frantumazione dell’impresa e di scomposizione del ciclo produttivo e delle filiere contrattuali.

Costruire luoghi e processi di riunificazione sociale nei luoghi di lavoro e nell’impresa diffusa e terziarizzata deve comportare  un nuovo e più avanzato livello di partecipazione   a livello aziendale e territoriale. Le camere del lavoro possono rappresentare il luogo di questa riunificazione politica e sociale della rappresentanza attraverso la promozione, d’intesa con le categorie e le RSU interessate, di comitati aziendali e/o territoriali   che abbiano il compito di riunificare la rappresentanza e la sfera dei diritti dei lavoratori lungo l’intero ciclo del lavoro e del servizio delle diverse aree contrattuali (degli   appalti, dell’ indotto, del terziarizzato, delle cooperative,   nei settori pubblici e privati ),  e di battersi per l’obiettivo di far corrispondere ad uguale lavoro uguali diritti,  promuovendo   comuni iniziative anche di lotta  con piattaforme di sito o di filiera discusse  e decise insieme .

Va in fine e di conseguenza superata un concezione della sovranità  della nostra organizzazione  fondata sulle tradizionali strutture verticali e orizzontali di rappresentanza  identificate secondo i parametri classici istituzionali di comune,  provincia, regione, nazionale.

C’è sicuramente una innovazione fondamentale da introdurre  in questa discussione sulla riforma della rappresentanza  e riguarda la corrispettiva riduzione delle rigidità di questo modello che  non consente di cogliere le esigenze di rappresentanza nuove  che  si manifestano lungo le filiere produttive e nell’impresa diffusa . Come  diamo sostanza a questa esigenza?

Come si inseguono e si rappresentano l’impresa diffusa e le filiere produttive e  le loro diramazioni attraverso comuni, province, regioni, stati diversi e differenti? A meno di non pensare a superburocrazie centralizzate che si assumano tale ruolo ai diversi livelli, e in questo caso la partecipazione dei lavoratori  a tali processi diverrebbe problematica,  dobbiamo dare vita a modelli flessibili e partecipati di costruzione di luoghi e sedi di rappresentanza effettiva  fondati sulla cooperazione intercomunale, interregionale e transnazionale ( almeno europea), e sul trasferimento di parte dei poteri e del ruolo di contrattazione   a questi livelli, che devono assumere la piena dignità di organismi effettivi di rappresentanza. È chiaro che ciò comporterà  una riduzione conseguente  delle risorse e dei poteri da parte delle strutture tradizionali a favore delle nuove .

C’è bisogno quindi di riprogettare e di pensare ad una nuova e diversa concezione della sovranità  e dei poteri di esercizio della funzione di rappresentanza che le nostre tradizionali categorie interpretative  e normative non   ci consentono.

Per finire non riesco proprio a immaginare come uno sforzo siffatto possa essere messo in cantiere senza il protagonismo e la partecipazione dei lavoratori e dei delegati, senza ricorrere alla loro passione, alle loro risorse politiche, sociali e  democratiche. Un simile progetto non è concepibile  se affidato solo a ristrette “elite” dirigenti.

 Si imporrebbe giocoforza un sistema democratico di rappresentanza  e di partecipazione dei lavoratori che le attuali ristrettezze e angustie del dibattito sindacale e politico ostacolano.

Per questo penso che il  rilancio di una battaglia per la democrazia sindacale deve essere legato a un progetto forte  di riforma della contrattazione e della rappresentanza sociale  del mondo del lavoro.

In tale direzione può essere utile l’estensione della Legge Bastianini al settore privato, con norme che disciplinino l’uso della referendum e della validazione democratica degli accordi sindacali, come indicato dagli emendamenti proposti al Congresso dalla Funzione Pubblica, sulla base di una intesa sindacale che può assumere come riferimento l’accordo raggiunto fra i meccanici.

Per concludere. Una nuova strategia sindacale basata sulla riunificazione del lavoro e degli interessi e sul controllo sindacale dal basso e sulla partecipazione diffusa  può essere alla lunga  una linea vincente che  rinnova le ragioni sociali di una nuova unità dei lavoratori e fra vecchi e nuovi lavori. Può  contribuire a rilanciare e riqualificare la contrattazione collettiva, la partecipazione e il protagonismo sociale e democratico  di tutti i lavoratori e le lavoratrici, rifondando una nuova cultura sindacale unitaria, non corporativa e non falsamente solidaristica, che  accresca il potere contrattuale dell’azione sindacale e dell’insieme del mondo del lavoro.

 

acastronovi@lazio.cgil.it

Roma,  Gennaio 2006