CGIL                                                                                    

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“Lavoro, sostenibilità, sviluppo locale, beni pubblici e democrazia

  nell’era della globalizzazione.

Rappresentanza e Partecipazione per

rinnovare i valori della confederalità e il ruolo del sindacato nel territorio”.

 

Temi, riflessioni e proposte per un dibattito sul futuro del sindacalismo confederale.

 

 

Di Antonio Castronovi

Resp.le Politiche della Sostenibilità e

della Partecipazione  della Cgil di Roma e del Lazio.

 

 

 

 

Testo a base del Seminario della Cgil di Roma e del Lazio

 del 21 ottobre 2005

  Auditorium di  Via Rieti 13 - Roma

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

 

 Le promesse mancate della globalizzazione

Uno dei falsi miti che stanno alla base dell’ideologia della globalizzazione e del pensiero unico neoliberista che ha pervaso il mondo e anche le culture della sinistra europea   è stata la  sua pretesa capacità di unificare il mondo sotto il segno dello sviluppo e di una più equa  opportunità per tutti i popoli della terra di goderne i presunti benefici. Oggi quel  velo è caduto e la globalizzazione neo-liberista si rivela per quella che è realmente: una rivoluzione della economia  che “libera” il capitale dai suoi condizionamenti sociali, politici e territoriali;  amplia le disuguaglianze nella distribuzione del reddito  e delle risorse globali tra Nord e Sud del mondo e nelle stesse aree più ricche del pianeta; aumenta la irresponsabilità sociale dell’impresa; distrugge le regole e la coesione sociale; impoverisce la democrazia, come dimostrano i recenti dati del rapporto ONU sulla povertà nel mondo.

Le decisioni fondamentali sullo sviluppo e sulla distribuzione delle risorse globali sono nelle mani di organismi internazionali non democratici come il FMI, la Banca Mondiale e il WTO controllati dai paesi più ricchi e più forti e dalle grandi multinazionali, che dettano le regole del commercio mondiale, impongono le ricette finanziarie ai paesi del Sud del mondo, fissano gli standard del lavoro e dei suoi diritti, promuovono la riduzione del potere degli stati attraverso le deregolamentazioni e le privatizzazioni. Imponendo indiscriminatamente ai paesi poveri la liberalizzazione della circolazione dei capitali e l’apertura delle loro frontiere alle merci di importazione, hanno  provocato conseguenze economiche e sociali disastrose per le loro fragili economie (J. Stiglitz 2002).

Una oligarchia ristretta detta le regole fondamentali  che determinano la vita di miliardi di individui e la politica  perde la sua autonomia  a favore dei poteri forti dell’economia globale. Il ruolo degli organismi internazionali,  a partire dall’ONU, viene impoverito e svuotato  a favore di una nuova logica di potenza e di guerra  dove prevalgono gli interessi dei più forti.

 Il sogno dei nuovi padroni del mondo è la “stateless global governance”,  il governo planetario senza stato.  Il risultato è la crisi della democrazia: i popoli contano sempre meno nelle decisioni che li riguardano e  gli Stati perdono sempre più la capacità di rispondere ai propri cittadini del destino dei loro paesi. L’esito di queste politiche  è la frantumazione del mondo: l’ aumento della povertà relativa e assoluta e della distanza tra ricchi e poveri. Il mondo diventa un gigantesco mercato in cui popoli, classi sociali, paesi, regioni, individui entrano in competizione feroce tra loro. La regola è il dumping sociale e territoriale: qualsiasi bene o servizio viene prodotto in quell’angolo del pianeta laddove i costi di produzione, sociali e ambientali risultano inferiori applicando su scala globale la teoria classica ( Ricardo) dei costi comparati  di produzione. I paesi ricchi e le grandi multinazionali la fanno da padroni a danno dei paesi poveri del Sud del mondo.

La dinamica competitiva globale non risparmia le regioni  forti e più ricche provocando  una destrutturazione dei modelli sociali di inclusione: l’impoverimento della classe lavoratrice,  la precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, la privatizzazione dei beni pubblici,  la crisi del welfare e dei sistemi di protezione e  sicurezza sociale in Europa.

I cosiddetti benefici della globalizzazione si concentrano su ristrette elite, città  e aree del mondo dove  alimentano  forme di benessere e di ricchezza  di nicchia o di casta. La globalizzazione porta ad uno sviluppo economico strettamente localizzato ed assume la forma dell’ ”arcipelago”: isole di benessere circondate da  un grande oceano di povertà  e di emarginazione ( J. Ziegler 2002). Il 20% della popolazione mondiale si accaparra l’80% delle ricchezze disponibili e consuma il 60% dell’energia totale. Mentre i paesi ricchi, USA, UE, Canada e Giappone, controllano l’80% del commercio mondiale, i 49 paesi più poveri  vi partecipano invece  solo per lo 0,5%. Oltre 1,5 miliardi di esseri umani non hanno l’accesso all’acqua potabile e ogni giorno muoiono 30.000 persone a causa di malattie legate alla carenza di acqua. Mentre l’87% della popolazione agricola mondiale vive nell’emisfero Sud del mondo, gli Stati  del Nord finanziano la propria sovrapproduzione agricola  e la riversano nel Sud grazie ai sostegni alle esportazioni delle grandi imprese agricole capitalistiche che superano ormai i 300 miliardi di dollari annui, che   distruggono le fragili   agricolture dei paesi poveri e la stessa sovranità alimentare di miliardi di persone.

L’etica della globalizzazione si può così riassumere: conquistare i mercati e annientare i concorrenti. Le disuguaglianze e la crescente povertà nel mondo  ne sono il prodotto.

 I 225 patrimoni privati più grandi del mondo raggiungono i mille miliardi di dollari pari al reddito cumulativo annuale di 2,5 miliardi di persone più povere del pianeta, quasi  metà della popolazione mondiale. I patrimoni delle 15 persone più ricche  sono superiori al PIL di tutti gli stati africani a sud del Sahara. Alcuni individui  così sono più ricchi di interi stati. I nuovi ricchi globali sono infatti il prodotto della economia finanziaria e il capitale finanziario in circolazione è 18 volte superiore al valore di tutti i beni e servizi prodotti in un anno nel mondo.

L’antropologia della globalizzazione in atto è quella del guerriero e del gladiatore che lotta solo contro tutti nell’ arena del mondo e delle nostre città per sopravvivere o arricchirsi.   La nuova classe imprenditrice globale  è composta da finanzieri, rentiers,  manager di imprese senza patria e radici che  in questi anni di impoverimento crescente delle classi medie e lavoratrici  sono riusciti   a moltiplicare  i loro redditi mentre le imprese da loro dirette espellevano migliaia di lavoratori o fallivano ( J. Ziegler). Dall’altra parte della scala sociale  ci sono  i tanti poveri e diseredati  che popolano le periferie del mondo e  delle città globali.

L’Europa non sfugge a questa logica competitiva.

 

Globalizzazione, Lavoro, Sviluppo

 

La globalizzazione   e il modello sociale europeo

La competizione tra modello anglosassone e modello sociale europeo sembrerebbe  ormai definitivamente risolta a favore del primo.

L’americanismo individualista e competitivo appare come  il modello antropologicamente vincente e i sistemi di sicurezza sociale e solidaristici pubblici  di tipo europeo  un residuo, invece, della storia  a cui si opporrebbero soltanto nostalgici vetero-socialisti e comunisti,  i sindacati, i movimenti e le reti associative no-global,  cioè tutti coloro che avrebbero in spregio la modernità e la libertà d’impresa. La furia privatizzatrice sembra toccare l’insieme delle classi dirigenti europee  che intravedono nel ridimensionamento del welfare da consegnare al mercato una opportunità  per rilanciare lo sviluppo e il ruolo dell’Europa nella competizione globale.

Una nuova divisione mondiale del lavoro si sta, infatti, configurando tra un polo che monopolizza la conoscenza, l’alta ricerca, le risorse energetiche, l’acqua  e che detiene il monopolio della forza militare,  e un polo di nuova industrializzazione che,  utilizzando le grandi risorse umane a basso costo  di cui dispone, si applica nella produzione di beni e merci che  invadono il mercato mondiale a prezzi competitivi.

L’Europa è inserita a pieno in questa dinamica, ma non è in grado di competere con questi due poli dello sviluppo globale. La strategia di Lisbona che doveva proiettare l’Europa nella società della conoscenza,  si è rivelata fallimentare per la scarsità delle risorse che il sistema è in grado di mettere in campo a sostegno della ricerca e dell’innovazione se paragonate agli investimenti della spesa pubblica USA nella ricerca militare e agli investimenti delle grandi corporations americane in ricerca e innovazione o al ruolo delle stato cinese nel sostegno allo sviluppo capitalistico della Cina.

La questione che ci dobbiamo porre è se conviene per l’Europa inseguire questo modello competitivo che rischierebbe di distruggere definitivamente la coesione sociale e la stessa  civiltà europea, o se puntare su un modello alternativo ai dettami della globalizzazione liberista  che valorizzi le nostre risorse e  peculiarità, la nostra cultura europea.

È possibile lo sviluppo senza coesione sociale? Il modello sociale europeo è una risorsa o un ostacolo  per reggere nella competizione globale? In questo caso quali sono le scelte  e le priorità che il movimento sindacale deve assumere? 

La globalizzazione dei processi produttivi  non ha eliminato  l’organizzazione del lavoro di tipo fordista e taylorista. Ha solo riorganizzato e ridistribuito nel sistema-mondo i ruoli dei vari territori e paesi  nell’organizzazione della produzione globale. I paesi più ricchi tendono sempre più a liberarsi e a decentrare la produzione dei beni materiali nelle zone del mondo dove possono utilizzare  il basso costo dei fattori produttivi, terziarizzandosi e concentrando al loro interno la gestione finanziaria, la ricerca e il controllo e monopolio della conoscenza  anche attraverso la brevettazione e privatizzazione  del vivente ( piante, animali e sementi) dando forma così  al processo di una nuova divisione internazione del lavoro globale  dove ai paesi di nuova  industrializzazione viene affidato il compito di produrre merci e beni materiali di consumo  a basso costo per il resto del mondo  oltre che per il loro mercato interno. In questo senso il modello taylorista è stato di fatto decentrato in questi paesi dove continua ad operare con le stesse regole e per gli stessi obiettivi per cui è stato inventato: produzioni di serie a costi competitivi, sfruttamento intensivo della forza-lavoro, irresponsabilità dell’impresa nei confronti della società e dell’ambiente.

Preposto che un simile modello non è riproponibile per l’Europa e per il nostro paese, che pur ha tratto da questo modello risorse e spazi di mercato per il suo sviluppo nel secondo dopoguerra, il dibattito su come si fa sviluppo oggi  in questa parte del mondo è centrale ai fini delle politiche pubbliche e per lo stesso movimento sindacale alle prese con le logiche competitive dettate dalle politiche di dumping ormai di norma anche nell’area europea che mettono in discussione imprese e posti di lavoro, diritti acquisiti  in termini di orario di lavoro e di salario, con estesi   processi  di precarizzazione del lavoro che impoveriscono le classi lavoratrici e  rendono fragili le basi della cittadinanza.

La privatizzazione del modello sociale europeo sembra infatti  per le sue classi dirigenti l’opportunità da cogliere per il suo sviluppo dopo  il fallimento della strategia di Lisbona. Come spiegarsi altrimenti la proposta  di Direttiva Bolkestein fatta dalla Commissione Europea  che intende privatizzare i servizi pubblici e i beni collettivi, l’istruzione, la sanità  e la conoscenza, alimentando  una logica di dumping fra paesi europei attraverso la norma del paese d’origine, che consentirebbe l’applicazione di standard e di diritti sociali  vigenti nel  paese in cui ha sede legale l’azienda fornitrice di servizi e non quelli del paese in cui invece esercita?

Sembrano quindi ,ancora oggi , prevalere in Europa i dettami del neoliberismo e la convinzione che il welfare e i beni pubblici siano un costo per l’economia e una zavorra per lo sviluppo. Non a caso la Commissione Europea aveva già aderito  in ambito WTO  alla logica privatizzatrice dei servizi pubblici e dei beni comuni ( istruzione, acqua, salute) che pretende di imporre ai paesi del Sud del mondo.

Ma questa convinzione viene oggi messa in crisi propria dal fallimento del neoliberismo e delle sue pretese di unificazione del mondo, e dal bisogno crescente di sicurezza che attraversano l’opinione pubblica  e i popoli europei, che si riverberano negativamente sul processo di Costituzione europea, incapace di collegarsi con queste inquietudini e di divenire processo costituente di una  nuova identità europea fondata sui diritti collettivi e individuali e sulla partecipazione pubblica.

In questo senso il dibattito sul destino e sul futuro dell’Europa  non può più essere affidato alle logiche e alle dinamiche neoliberali di mercato sanzionate a Maastricht, ma deve proporsi un suo spazio e un suo ruolo nel mondo e ciò chiama in campo la progettualità politica e sociale, non solo delle forze politiche di sinistra, ma dello stesso movimento sindacale europeo.

In questo campo accusiamo ancora ritardi e incertezze oltre che divisioni tra i movimenti sindacali dei vari paesi europei, acuiti dalla scelta  dell’allargamento dell’UE ai pesi dell’ex campo socialista.

Le differenze tra i vari modelli sociali di cui i 25 paesi sono portatori rende difficile la politica tradizionale  in ambito UE dell’armonizzazione verso l’alto del sistema dei diritti. Tende invece prevalere, anche sotto la spinta dei paesi di nuovo ingresso e quella più tradizionale della Gran Bretagna più sensibili alle logiche e alle suggestioni neoliberiste, la logica della privatizzazione e della competizione in cui rischia di frantumarsi il modello sociale europeo basato sul welfare pubblico e sui diritti di cittadinanza.

In tale contesto e in presenza di una crisi della politica e del progetto costituzionale europeo, è sulle parti più deboli della  società europea e sull’insieme delle classi lavoratrici che rischia di scaricarsi il peso e le conseguenze di una collocazione dell’Europa subalterna al modello americano e incapace di progettare un suo autonomo spazio e ruolo nella economia e nella geopolitica globale.

Per queste ragioni il movimento sindacale europeo deve assumere una funzione e un ruolo più confacente  alla delicatezza e alla strategicità della fase e misurarsi  con il tema della qualità dello sviluppo e del modello sociale europeo, e non solo con quello della competitività delle imprese da sostenere, magari, sottraendo diritti al lavoro o con incentivi pubblici.  Un tale approccio  pone al movimento sindacale europeo il problema del superamento delle angustie di una politica contrattuale difensiva per limitare i danni provocati dalle minacce delle delocalizzazioni,  per definire invece  un campo e uno spazio europeo sociale e pubblico allargato, sottratto  alla  egemonia  e al controllo del  modello liberista e americano, in  cui affermare un modello alternativo di sviluppo fondato sui diritti sociali e civili, sulla cittadinanza e sull’inclusione sociale dei migranti; nonché  su una economia sostenibile e  innovativa, fondata sulla conoscenza, sulla ricerca, sulla difesa dei beni comuni, in cui il welfare  sia una risorsa  e non un ostacolo al suo sviluppo, aperto  alla cooperazione e al sostegno al co-sviluppo con i paesi del Mediterraneo e del Sud del mondo, rinnovando gli impegni assunti nel 1995 dai paesi europei con la Conferenza  di Barcellona.

L’Europa deve scegliere se essere guardiano dell’impero atlantico a guida USA, o se recuperare una dimensione strategica euro-mediterranea tra i paesi europei e i paesi mediterranei  compresi tra i Balcani, il Medio-Oriente e il Maghreb, ampliando  l’Unione Europea a Sud.

Si tratta di scegliere se privilegiare  un modello che   punta sulla competizione globale per affermare la superiorità e competitività delle merci e dei prodotti europei, e quindi sulle esportazioni, sostenute da politiche di penetrazione e controllo sul mercato globale, oppure sul sostegno alla domanda interna, puntando su un euro forte in grado attrarre capitali esteri, e su  una politica economica comune dei paesi UE. L’Europa è un sistema quasi “chiuso”, in cui il grosso degli scambi commerciali avvengono tra paesi dell’area euro, in cui sarebbe possibile sperimentare politiche neo-keynesiane di sostegno alla domanda e di sviluppo regionale e locale sostenibile, anche attraverso correzioni alla tradizionale politica monetaria  restrittiva inaugurata a Maastricht.

Un modello di sviluppo, cioè, alternativo   a quello liberista, in grado di “differenziarsi “ rispetto alle tendenze e alle forze omologanti della globalizzazione, capace di “competere” con il modello americano  nell’arena globale, in grado di offrire ai popoli e ai  paesi del sud del mondo la possibilità di un loro sviluppo autonomo fondato sulla pari dignità, sulla solidarietà, sulla difesa del diritto all’autogoverno e al controllo delle proprie risorse e culture, sulla pace, sulla sovranità alimentare e sulla cooperazione internazionale. Capace altresì di sostenere  modelli locali e sub-regionali di sviluppo basati sulla valorizzazione sostenibile delle risorse naturali, produttive, culturali, democratiche e partecipative locali.

Ciò implica, anche per il sindacato, assumere i vincoli e gli obiettivi della cultura della sostenibilità.

 

Il lavoro, la  sostenibilità, la qualità dello sviluppo

La cultura del movimento sindacale ha storicamente considerato il benessere  come un portato dello sviluppo delle forze produttive. La natura, l’ambiente e la  loro tutela, nel processo produttivo, sono sempre state viste come una contraddizione secondaria risolvibile con i progressi della scienza e della tecnica e qualche volta addirittura come un ostacolo alla stessa crescita.   Questo paradigma, nell’epoca dell’ enorme potenziamento delle forze produttive sostenuto da uno sviluppo della tecnica e del progresso scientifico senza precedenti nella storia umana, si dimostra oggi infondato. Di fronte alla possibilità concreta  di produrre in maniera sufficiente per debellare la fame e la miseria, mai come oggi invece le disuguaglianze e la povertà attanagliano il mondo. 

E mai come oggi, nonostante gli enormi progressi della scienza e della tecnica, la vita del nostro pianeta è stata così a rischio: rifiuti urbani e  rifiuti industriali  nocivi non riciclabili fanno il giro del mondo e sono oggetto di un commercio illegale che alimentano e arricchiscono  le ecomafie; le città sono sempre più invivibili e inquinate dal traffico e dagli scarichi urbani; la distruzione  delle foreste e l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria compromettono l’equilibrio ecologico del pianeta e la sua biodiversità. Nuove e più disastrose catastrofi “naturali” si abbattono sul pianeta procurate  dall’incuria e dalla furia predatrice dell’uomo, provocando danni materiali e morali enormi alle popolazioni più povere e indifese. Nel frattempo la maggiore potenza industriale del pianeta respinge il protocollo di Kyoto per non compromettere lo stile di vita americano!

Il modello competitivo dominante tende ad unificare il mondo sotto i principi della ideologia liberista, insofferente alle regole e al rispetto dei diritti sociali e della natura. Tutte le risorse del pianeta sono messe così al lavoro per valorizzare il capitale industriale e finanziario.

Lo sviluppo quantitativo che ne risulta  viene misurato attraverso il  PIL, escludendo dai suoi calcoli  i costi delle  esternalità e dei danni  sociali e ambientali provocati.

Sta qui la sua vocazione distruttiva della coesione sociale e della qualità della vita ecologica del pianeta.

 Condividere la cultura della sostenibilità  vuol dire, anche  per il sindacato,  valutare  attraverso tale criterio  l’intero ciclo della produzione dei beni, che parte dall’uso e dal consumo delle risorse naturali impiegate, prosegue poi con l’uso dei materiali utilizzati nel processo produttivo,  si conclude  infine con i beni finali e con le scorie e gli scarti della produzione e dei consumi, cioè con le ricadute sull’ecosistema   delle  esternalità del processo: ciò vuol dire  considerare  i danni all’ambiente e  alla sicurezza  collettiva  un  prezzo non inevitabile da pagare sull’altare  dello sviluppo e del  benessere, per recuperare invece  una capacità di critica delle logiche di uno  sviluppo  basato sulla crescita illimitata ad alto consumo di energia e di materie prime.

Un nuovo modello di sviluppo per essere sostenibile  deve essere fondato su un ciclo produttivo a  basso  consumo energetico basato su fonti rinnovabili e  ad alta qualità e riciclabilità dei materiali impiegati;  deve assumere  come criteri di validazione gli indicatori della qualità della vita, del benessere sociale, della qualità ambientale, della partecipazione pubblica,   in particolare i diritti di cittadinanza, la lotta alla povertà, la difesa e lo sviluppo del  welfare, la promozione  e la valorizzazione dei beni pubblici. Deve essere inoltre sostenibile socialmente per l’insieme delle popolazioni del globo. In tale accezione si deve parlare di sostenibilità ambientale, produttiva, sociale e democratica.

I modelli competitivi e di mercato proposti dalla globalizzazione liberista  non sono portatori di questi valori. La cultura della sostenibilità non è compatibile con le logiche del mercato e della competizione globale , con l’autonoma e l’ irresponsabilità sociale dell’impresa.

La globalizzazione neo-liberista ha infatti esasperato le dinamiche competitive tra individui, territori, città,  nazioni e sistemi regionali, in uno scenario di guerra commerciale dove dominano le grandi multinazionali  e le pratiche di dumping sociale e territoriale a danno dei diritti dei lavoratori, delle popolazioni del Sud del mondo  e dell’ambiente.

Assumere, per  il sindacato e la sua  cultura, il criterio-guida della sostenibilità  significa affermare, nelle sue politiche e nella sua azione sindacale, la centralità della qualità del modello di sviluppo, del “cosa e per chi  produrre” e del controllo sociale sui fini della produzione, significa privilegiare le “reti corte” della produzione e del consumo ( agro-alimentare, trasporti, energia, ecc) a sostegno dello sviluppo locale. La  rappresentanza, la natura della contrattazione e della concertazione sociale che alimentano la sua funzione sociale  si devono legare a questi principi.

 La discussione sulla natura e sul ruolo della concertazione sindacale che ha animato in questi anni il dibattito politico e sindacale non tiene conto infatti di questi valori e principi .

Il cuore del dibattito è ed è stato, invece, sul come sostenere l’impresa e la sua competitività nel mercato mondiale, e quindi quali e quanti sacrifici i lavoratori dovrebbero sopportare per sostenere l’attuale modello competitivo. Il giusto accenno all’esigenza di uno sviluppo produttivo improntato sulla qualità   si risolve spesso nell’auspicare la necessità di forti investimenti nella ricerca  e il sostegno  degli Istituti di ricerca e delle Università alla innovazione delle imprese a sostegno della loro competitività.

La domanda a cui rispondere mi sembra, invece,  la seguente: come si può fare sviluppo di qualità senza uscire  dalle logiche e dalle dinamiche  globali della competizione ossessiva  oggi dominanti? Senza assumere i vincoli e gli obiettivi della sostenibilità? In questo senso l’innovazione, di processo e di prodotto,  è una condizione necessaria ma non sufficiente. In questo  caso diventa  fondamentale interrogarsi sui  fini della produzione, del “cosa produrre”,  sul controllo sociale sul processo produttivo, per sostenere uno sviluppo equilibrato ed autocentrato  del territorio fondato sulla   partecipazione pubblica, sulla  valorizzazione delle risorse e delle produzioni legate alle culture e alle vocazioni locali e regionali, e su un forte luogo di guida da parte della sfera pubblica e  dei governi locali.

La concertazione tanto vagheggiata oggi da Confindustria  si pone  invece esplicitamente l’obiettivo di “tutelare” l’impresa dalla democrazia e dal controllo pubblico  e democratico dei lavoratori e dei cittadini, di ridurre il ruolo della contrattazione collettiva , per affermare il primato e l’autonomia dell’impresa nel processo produttivo e sul territorio.

Questa idea della concertazione è anch’essa incompatibile con la cultura della sostenibilità.

Conciliare per il sindacato la contrattazione, la concertazione  con la cultura della sostenibilità implica una ridefinizione  della qualità democratica della sua rappresentanza rispetto a cosa è l’interesse generale, che deve fare riferimento non solo a quella classica ed ineludibile del mondo del lavoro, ma deve allargarsi alla sfera  sociale e pubblica, alla dimensione   del non-lavoro, ai diritti di cittadinanza, alla tutela e salvaguardia del territorio come bene comune, interrogarsi sul destino delle nostre città e della qualità della vita urbana,  promuovere la partecipazione e l’allargamento della sfera  della democrazia e dello spazio pubblico. Nei conflitti ambientali, ad esempio,  le  popolazioni locali e le loro associazioni devono avere il diritto a partecipare alle decisioni   e ai negoziati in cui si discute del destino  o dell’insediamento di stabilimenti e siti nocivi e inquinanti, che non possono essere di titolarità esclusiva  delle relazioni industriali tra impresa e sindacato. Così come nella gestione e difesa dei beni pubblici  legati alla cittadinanza non si può prescindere da forme più avanzate di partecipazione e di democrazia che vedano protagonisti i cittadini.

 Una rinnovata funzione sociale delle classi lavoratrici e delle sue lotte deve porre al centro delle sue rivendicazioni non solo il ruolo centrale del lavoro nella produzioni di merci e servizi e la sua valorizzazione, ma anche il fine del  lavoro e della qualità delle merci e dei servizi prodotti, cioè della loro natura e funzione sociale. Deve insomma conciliare  politiche redistributive, qualità e sostenibilità dello sviluppo.

Il prossimo congresso della Cgil può rappresentare una prima grande occasione per il movimento sindacale italiano per aprire una simile riflessione di ampio respiro in cui collocare elaborazioni,  progettualità ed obiettivi di  “buone pratiche”  con cui accompagnare la sua  iniziativa quotidiana.

 

Il conflitto capitale-lavoro e  modello di sviluppo

La riduzione del lavoro a funzione della produzione  e della valorizzazione del capitale operata dalla rivoluzione liberista, ripropone oggi il tema della natura e della qualità del conflitto fra  capitale e lavoro, del rapporto tra produzione e riproduzione sociale del lavoro, con la verifica della sua capacità di fungere,  ancora, da  motore del progresso  della storia.

Il lavoro salariato  per affermare un suo ruolo e la sua autonomia  nel conflitto capitale-lavoro ha avuto storicamente  nel suo seno due varianti:

a-      riappropriarsi dei fini  e degli strumenti della produzione  contro l’alienazione della prestazione lavorativa;

b-     accrescere la remunerazione del lavoro attraverso il potere di coalizione e il conflitto sindacale.

Ha in sostanza oscillato tra un orizzonte   di emancipazione sociale e politica delle classi subalterne e una dimensione più  sindacal-corporativa. In alcune fasi della storia del movimento operaio queste due dimensioni sono state complementari e hanno convissuto dentro una stessa strategia e sotto la guida di partiti operai  che incontravano gli ideali del nascente movimento socialista.

Oggi non è più così. La crisi del socialismo come riferimento mobilitante delle lotte operaie, la crisi e la scomparsa dei partiti operai o rappresentanti delle classi lavoratrici, ha accentuato l’anima e la componente economico-corporativa  delle rivendicazioni del mondo del lavoro.  Se oggi è lontana dalle pratiche e dagli orizzonti delle lotte del lavoro l’obiettivo della sua emancipazione politica e sociale  dalla alienazione della sua funzione produttiva, nello stesso tempo  si riduce la stessa efficacia generale della sua capacità di redistribuire la ricchezza prodotta attraverso il conflitto sindacale. Si acuiscono  infatti anche nel mondo del lavoro le differenze retributive tra settori , tra contratti e  tra territori che,  insieme alla crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro, tendono a configurare  un arcipelago  di situazioni dove convivono aree di relativo privilegio retributivo  e altre di lavoro povero  e mal pagato. È in gioco la stessa identità e autonomia sociale del mondo del lavoro e la sua funzione storica di soggetto di promozione  di una più equa redistribuzione della ricchezza sociale prodotta.

Ciò rende il lavoro più debole e  subalterno  alle logiche e alle dinamiche della globalizzazione economica che deterritorializza l’impresa, frantuma il lavoro, scompone e distrugge le identità e le culture del lavoro e della storia della sua emancipazione.

Se l’impresa post-fordista, diffusa nel territorio,  depotenzia il valore sociale del conflitto tra capitale e lavoro, frantuma e segmenta  il ciclo produttivo, disperde e  scompone il lavoro nel territorio globale, rafforza il proprio potere sulla società  e nei rapporti sociali di produzione, come può il lavoro nelle sue varie forme contrastare  questo dominio?

I rapporti sociali di produzione non sono più il semplice riflesso dei rapporti di potere  tra capitale e lavoro nell’ impresa “concentrata”, “ recintata”, di tipo  fordista,  ma vivono e si formano oramai  anche nella società e nel territorio che diventano funzionali all’impresa e alla valorizzazione del capitale.

I processi di precarizzazione del lavoro non si creano esclusivamente  sulla base dei  rapporti di produzione e di  potere che si instaurano nei luoghi di lavoro, ma nascono e vengono prodotti direttamente anche fuori, nella società , nei modelli sociali e nei  processi politici e democratici che producano  i meccanismi e i dispositivi  politici e  culturali, costrittivi ed ideologici, oltre che legislativi,  che alimentano l’offerta di una  forza–lavoro già   precarizzata all’origine, pronta in tal forma ad offrirsi al mercato e all’impresa, in un mercato del lavoro globalizzato che  alimenta forme selvagge di dumping sociale e contrattuale.

Il “dominio” del capitale nei rapporti di produzione nasce anche da questa sua ricollocazione nella società e nel territorio globale. Il capitale modella la società e il lavoro e li rende ad esso funzionali, non più proiettando direttamente  fuori della “fabbrica”, nel “territorio”,  i rapporti di potere ivi instaurati, ma plasmando  la società di questi rapporti di dominio, che riproducono lavoro precario pronto per essere immesso nella rete della produzione globale, dell’ “impresa diffusa”,  ed esternalizzando i costi della riproduzione sociale della forza-lavoro ( casa, trasporti, salute e sicurezza), che vengono così messi  a carico della società.

Per queste ragioni è insufficiente la leva  redistributiva per cambiare i rapporti di potere tra capitale e lavoro se non si aggredisce questo “dominio” nella società  e nel territorio, nei luoghi dove si forma  e da cui  trae alimento.

 Riaffermare il valore “progressista” della contraddizione tra capitale e lavoro, pone  quindi il problema della fuoriuscita di questo conflitto dalla sua dimensione economico-corporativa (che riflette come abbiamo visto le debolezze e le contraddizioni de mondo del lavoro) per affermare invece  la sua  natura sociale e politica, possibile se  la ricomposizione del lavoro e delle sue identità  aggredisce il modello produttivo e sociale  generato dalla globalizzazione, e se diventa un progetto alternativo di società e di sviluppo.

È infatti la natura dello sviluppo, con  le contraddizioni che genera sul piano locale  e globale (polarizzazione fra ricchi e poveri, omologazione culturale, frantumazione sociale, etero-direzione  e crisi della democrazia e della partecipazione ), che detta  le condizioni della qualità sociale  del modello produttivo, alimenta politiche di esclusione sociale,  preme  per abbattere le sicurezze sociali e pubbliche,  precarizza il lavoro.

È il modello competitivo globale che dette le regole  della concorrenza esasperata a livello locale che produce dumping sociale, ambientale e territoriale; che  obbliga le società locali a scegliere,  per  sopravvivere, tra due alternative perdenti:  chiudersi in un localismo autoescludente o aprirsi alla colonizzazione delle reti lunghe della globalizzazione e dei soggetti dominanti che impoveriscono  e distruggono le risorse culturali, ambientali, produttive, identitarie delle società locali.

Oggi per ridare spazio   a una politica, anche rivendicativa, che valorizzi il lavoro bisogna reintrodurre nell’orizzonte  del movimento dei lavoratori  una rinnovata visione dei  fini della produzione: la consapevolezza e il controllo sociale e democratico del come, dove, cosa e  per chi  si produce.

La valorizzazione del lavoro  presuppone   la lotta alla precarietà, anche abolendo la Legge 30, ma soprattutto implica    il ripristino del controllo dei lavoratori sull’odl, sulla ricomposizione del ciclo produttivo  e della rappresentanza nell’impresa diffusa e terziarizzata, attraverso  una verifica e validazione sociale degli obiettivi e dei fini del lavoro, all’interno di un nuovo spazio pubblico partecipato che produca nuovo sviluppo socialmente, economicamente, politicamente, ecologicamente  sostenibile, ovverosia  una nuova democrazia economica.

 

Sviluppo locale e globalizzazione

I flussi globali condizionano  fortemente la qualità dello sviluppo  dei sistemi  territoriali  e urbani: determinano  una  nuova condizione della vita, del produrre, del consumare. Pesa sempre più nel  modello di sviluppo locale il ruolo delle grandi multinazionali e della finanza globale nel determinare le scelte e le individuazioni delle localizzazioni e delle opportunità degli  investimenti.

 La competizione fra sistemi locali e urbani induce una  richiesta di flessibilità dei fattori produttivi e di deregolazione negli standards urbanistici e sociali che pesano nelle scelte degli enti locali e creano difficoltà allo stesso sindacato nella difesa dei diritti sociali e sindacali dei lavoratori.

Ciò determina una riduzione del ruolo  autonomo delle comunità locali nella capacità di progettare le scelte e la qualità del modello di sviluppo dei loro territori e delle loro città, e costringe spesso il sindacato a scelte dolorose  tra  diritti del lavoro e occupazione, venendo ad instaurarsi  di fatto  rapporti  di subordinazione oppure  di conflitto tra dinamiche della globalizzazione produttiva e  comunità locali.

La globalizzazione costituisce infatti una opportunità per le economie forti all’avanguardia nella ricerca e nelle tecnologia, nel controllo monopolistico delle risorse naturali e della conoscenza, in grado di colonizzare e conquistare mercati nuovi, oppure per economie regionali in ascesa, come l’India e la Cina,  che possono contare su grandi mercati regionali e su una abbondante forza- lavoro a basso prezzo in grado di competere globalmente nelle produzioni di beni manifatturieri. Rappresenta però un problema per una economia come la nostra che non sta né nella fascia alta né in quella bassa della  nuova  divisione internazionale del lavoro e che rischia di esserne travolta.

La conseguente destrutturazione del modello economico e sociale  e dei suoi poteri regolativi e di governo  inducono nelle società globalizzate  la crisi della democrazia e delle istituzioni rappresentative.

I  “globalizzatori”  e  i “vincenti”  della competizione  globale dettano infatti le regole agli Stati e ai governi locali e controllano le risorse strategiche per lo sviluppo dei territori; ai governi locali non resta che  favorire e rendere convenienti per gli investitori il loro insediamento o essere esclusi dai presunti benefici della globalizzazione.

Cosa possiamo fare per evitare  tali rischi?

Due sono le opzioni che sono prese in considerazione e che vanno valutate in termini complementari e non alternativi: spingere  da una parte verso una valorizzazione  delle produzioni e delle risorse locali  esaltandone le qualità specifiche,   e provare dall’altra  a collocarsi verso una frontiera più avanzata dell’economia con elevati investimenti in ricerca e sviluppo.

Le esperienze  orientate prioritariamente verso lo sviluppo locale  tentano appunto di dare una risposta a questa difficoltà riscoprendo e valorizzando le caratteristiche e le risorse in loco, in grado di rispondere a queste esigenze di qualità e di tipizzazione  legate al luogo, coniugandole col concetto di sostenibilità vista come opportunità. In quanto unici, questi beni conquistano un mercato senza subire la concorrenza di merci e risorse valoriali simili.

In questo senso le caratteristiche dell’ economia regionale del Lazio possono essere una opportunità   per promuovere uno sviluppo orientato alla sostenibilità e alla promozione di produzioni  legate alle peculiarità del suo territorio .

Il Lazio è infatti  una regione che,  per la bassa produttività dei suoi settori produttivi, pur in presenza di una buona tenuta dell’occupazione, e per la bassa rilevanza del settore manifatturiero,   non è sostanzialmente aperta al mercato  globale. La sua economia, caratterizzandosi  per il forte peso del settore pubblico e dei settori protetti, è  inserita nell’area dell’euro che risente poco  dei cicli di alta e bassa congiuntura  e della pressione competitiva esercitata dalle economie dei paesi emergenti.  Il 70% delle esportazioni dal Lazio raggiunge infatti  i mercati europei,  e i servizi rappresentano l’80% circa del valore aggiunto e il 76% del PIL regionale. 

Quale può essere il futuro di una regione come il Lazio? Quello di orientare il suo sviluppo verso modelli competitivi in grado di essere vincenti nell’economia globale, oppure di promuovere lo sviluppo di un  mercato interno, con un modello di sviluppo  che si differenzi da quelli in auge nella economia globalizzata e che faccia  riferimento a un modello regionale europeo aperto al co-sviluppo con i paesi della area del Mediterraneo e del Sud del mondo?

Privilegiare la scelta competitiva  a sostegno di un modello di esportazione  richiede però ingenti investimenti e alti tassi di produttività per  primeggiare in settori di mercato già occupati  da altre economie più avanzate. Operare e sostenere una scelta per il mercato interno, locale, regionale, europeo aperto al sud del mondo, può valorizzare invece  le sue peculiarità e  le sue risorse naturali e territoriali.

 

Lo sviluppo locale sostenibile

Per affermarsi  un progetto di sviluppo locale deve nascere ed essere promosso dalle comunità locali .

La dimensione locale, le aree metropolitane, i sistemi urbani di area vasta, ecc, consentono infatti la valorizzazione delle risorse territoriali, culturali e ambientali specifiche,  nonché la possibilità di reti corte di produzione e di  consumo nell’agro-alimentare, nelle energie rinnovabili, accorciando i tempi del trasporto delle merci, con uso ridotto di spazio, di risorse ambientali e  con risparmio di risorse  energetiche .

Uno sviluppo qualitativo e sostenibile deve basarsi, infatti,  innanzitutto sulla critica del produttivismo, del consumismo, del competitivismo esasperato e dell’alto  consumo energetico.

Deve promuovere e valorizzare le risorse locali, quelle produttive, agricole, culturali, ambientali e paesaggistiche, deve tutelare la diversità culturale, i cicli naturali, l’ambiente, il territorio, le acque,  il suolo, la biodiversità,  l’equilibrio tra città e campagna, il sistema dei parchi naturali, i diritti alla cittadinanza e alla qualità della vita e del lavoro dei cittadini e dei lavoratori. Deve impedire lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e del territorio, deve contenere il consumo di suolo per attività edificatorie, deve consentire la riproducibilità delle risorse ambientali, naturali e sociali.

Per queste ragioni tutte le opere di trasformazione del territorio per uso edificatorio, di opere pubbliche e infrastrutturali, ecc.  devono misurarsi con queste esigenze e devono essere precedute da valutazioni di impatto ambientale, strategica e sociale, consultando e facendo protagonisti di queste scelte le assemblee elettive e i cittadini.

Innanzitutto occorre ancora precisare che quando parliamo di sviluppo locale, avendo a riferimento l’economia e il mondo globalizzato, non si deve intendere una economia chiusa di prossimità. In questa ottica si può parlare di sviluppo locale-regionale  anche nella dimensione europea, se con tale termine intendiamo la valorizzazione delle risorse e dei modelli sociali e produttivi specifici della sua storia e cultura.  Non dimentichiamo che gran parte delle risorse disponibili per lo sviluppo locale sono finanziate dalla comunità europea.

Parliamo più propriamente di sviluppo locale in quanto prendiamo in  considerazioni quei fattori dello sviluppo  che possono essere promosse  dalle realtà politiche, istituzionali, produttive, sociali e culturali locali, o come effetto di obiettivi condivisi di programmazione regionale. Non si vuole proporre quindi modelli di sviluppo chiusi o autosufficienti, ma affermare invece un ruolo e un peso delle comunità locali a governare le scelte di sviluppo dei loro territori e a partecipare a  tutte le decisioni che lo sovrintendono. Le comunità e i sistemi locali devono essere   protagonisti e attori del proprio sviluppo per valorizzare le loro risorse, aperti e cooperanti con altri sistemi locali e regionali, ma non  in un rapporto  di subordinazione o di sudditanza .

Il riconoscimento da parte della società locale dei propri valori patrimoniali costituisce infatti  la pre-condizione per la loro cura, tutela e utilizzo per produrre ricchezza durevole e sostenibile.

Gli ambiti potenziali di sviluppo locale  devono possedere caratteristiche e risorse suscettibili di auto promozione e di valorizzazione .

In questa ottica va superata una visione dello sviluppo locale centrata sui distretti industriali manifatturieri monosettoriali, per sostenere invece un modello che faccia perno sui sistemi produttivi locali.

In Italia il sistema dei Distretti industriali veicolano il 50% dell’occupazione nel settore manifatturiero,  quasi un terzo del PIL e la metà delle quote di export del nostro paese.

Le basi di un nuovo modello di sviluppo non può che partire dal territorio e dalle sue potenzialità.

Occorre però superare  il concetto del distretto manifatturiero monosettoriale, per attivare sistemi produttivi locali integrati  in cui cooperino imprese, ricerca, enti locali, mondo del lavoro, società civile, credito locale, per integrare e rafforzare le filiere e in cui si sostenga finanziariamente non l’impresa  ma i progetti produttivi e gli ambiti territoriali di sviluppo locale.

La cosa fondamentale è mettere in rete tutte le energie dei sistemi locali, e che le politiche di sviluppo locale siano promosse e sostenute dal basso e che siano nelle mani delle classi dirigenti locali. 

La dimensione territoriale ottimale, di area metropolitana o di sistemi urbani intercomunali, dovrebbe promuovere la collaborazione tra governi locali per un federalismo cooperante e solidale dal basso in una ottica policentrica dello sviluppo regionale, in grado di ottimizzare le risorse, le infrastrutture di trasporto pubblico, i servizi pubblici d’eccellenza, i servizi privati,  gli investimenti, ricostruire le filiere produttive, nonché offrire sbocchi adeguati  al mercato locale.

Il dibattito antico sulla città metropolitana o su Roma città-regione o meno, può essere rivisitato e riletto attraverso un progetto di sviluppo locale di questo tipo a cui offrire anche sponde istituzionali.

I municipi, la Provincia, la Regione sono potenzialmente i soggetti sussidiari della costruzione di nuovi modelli di sviluppo locale fondati sull’autosostenibilità.

Con le nuove competenze assegnate  dalla riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni hanno assunto responsabilità nuove nelle politiche di sviluppo regionale in materia di piccole e medie imprese, artigianato, ambiente, energia, ricerca, mercato del lavoro  e si definiscono come soggetti di programmazione. La  Regione può sostenere la cooperazione tra enti locali e tra i vari sistemi locali, anche con il decentramento a questi livelli di funzioni e poteri e, con gli obiettivi, le risorse e gli strumenti della programmazione regionale, promuovere  la cooperazione tra i sistemi locali anche  a livello interregionale.

 

Il Lazio: la valorizzazione delle risorse ambientali e territoriali

Il Lazio  occupa il 5°  posto nelle graduatoria delle regioni italiane per il PIL prodotto nel 2003 . Gli indicatori di qualità regionale di sviluppo ( QUARS) nel III Rapporto di Sbilanciamoci! collocano invece la regione al 15° posto nella qualità urbana, al 14° per la qualità sociale e al 14°  nella graduatoria della Sostenibilità, che calcola insieme sviluppo umano, crescita economica e sostenibilità ambientale.

Non è migliore la posizione della regione nella raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, al 15° posto fra le regioni  con l’8,1%,   nell’uso delle fonti di energia  rinnovabile, terz’ultima col 2,9 di Gwh su totale dell’energia prodotta, e nell’inquinamento delle coste per il 12,5% del  totale, seconda solo alla Campania .

Secondo il Dossier di Legambiente il Lazio conta inoltre 207 siti inquinati: è al 5° posto fra le regioni italiane per i reati ambientali, al 3° per cantieri illegali e scavi abusivi, al 3° per discariche abusive e scarichi nocivi. Questi dati, insieme alla disastrosa e emblematica vicenda della Valle del Sacco, la seconda area agricola del Lazio dopo la valle del Tevere, avvelenata da scarichi abusivi  di rifiuti industriali,  svelano una lontananza  della regione da parametri accettabili di tutela ambientale e di sostenibilità.

Eppure il Lazio è un territorio con una straordinaria ricchezza di beni ambientali,  di parchi naturali e archeologici, di beni   culturali, storico-paesaggistici unici al mondo!

La valorizzazione di questo grande e inestimabile patrimonio rappresenta una risorsa strategica per politiche locali improntate alla sostenibilità e alla peculiarità tipiche dei luoghi.

Un primo obiettivo regionale  a sostegno di uno sviluppo locale sostenibile  può essere la promozione di una politica di valorizzazione delle risorse territoriali e locali rurali ed agricole regionali,  riequilibrando il rapporto tra città e campagna, tra grandi e piccoli centri, contrastando le dinamiche  all’abbandono e allo spopolamento dei piccoli comuni e di intere aree e territori rurali del Lazio.

La conservazione del territorio e il rilancio e la diversificazione delle attività sociali, economiche  per la rivitalizzazione delle comunità rurali e montane  può far perno sulla promozione di una agricoltura  multifunzionale e su uno  sviluppo rurale attraverso i distretti rurali di qualità.

Lo sviluppo rurale deve promuovere  la manutenzione e la cura del territorio, assicurare la biodiversità, il rilancio dell’artigianato locale, dell’occupazione attraverso la promozione e lo sviluppo  delle piccole e medie imprese e delle varie forme di turismo sostenibile legato alle  produzioni tipiche locali e alla fruizione dei beni archeologici e storico-ambientali, nonché fornire servizi, informazione e formazione per uno sviluppo locale sostenibile.

Il presidio e la tutela delle risorse naturali, dell’uso del territorio e delle sue risorse, del suo valore storico archeologico, paesaggistico, ambientale e   delle culture locali,  dal mercato e dalle sue logiche consumistiche e distruttive,  deve  far perno sul  recupero delle terre pubbliche e per usi civici .  La legge  regionale promulgata dalla Giunta Storace che consente ai comuni la possibilità di alienare, cioè privatizzare, le terre sottoposte ad usi civici , rappresenta non solo un atto illegittimo, in quante queste terre per Statuto sono inalienabili e appartengono per sempre alle comunità locali, ma induce la falsa idea che l’unico modo di mettere a profitto quelle terre è la loro privatizzazione e mercificazione per produrre rendita fondiaria e finanziaria, e non per produrre beni e servizi pubblici, incentivando ad esempio  una loro gestione associata e cooperativa per produrre tutela ambientale e delle acque,  tutela del patrimonio boschivo e forestale, agricoltura biologica,  biodiversità, ecc.. Attualmente il governo di centro-destra sta sottoponendo alle camere un disegno di legge che persegue lo stesso obiettivo su scala nazionale e che andrebbe contrastato con più convinzione dalla attuale opposizione parlamentare, per difendere dal rischio  di privatizzazione oltre 6 milioni di ettari di terre civiche che sono oggi un presidio di resistenza alle pratiche di saccheggio e dissipazione delle risorse ambientali e naturali del nostro paese.

Il  secondo cardine per  una politica  sostenibile a livello locale non può che  promuovere il governo  dell’energia, del sistema delle acque  e dei fiumi, del ciclo dei rifiuti, come risorse e beni comuni primari attraverso:

Una ipotesi di sviluppo che punti a valorizzare le risorse locali deve porsi inoltre il problema della ricomposizione e integrazione delle  filiere del processo produttivo, a partire dalla riqualificazione dei distretti locali.

La segmentazione e la frammentazione del ciclo produttivo producono da una parte una dispersione nel territorio del sistema di imprese e dall’altra un loro controllo centralizzato  attraverso la catena del valore aggiunto.

Chi controlla le leve finanziarie, organizzative, di mercato e distributive  del ciclo, incamera la maggior parte del valore aggiunto,  relegando in un rapporto di dipendenza le altre imprese della catena .

L’integrazione produttiva e una equa distribuzione del valore aggiunto deve   essere il primo obiettivo  di una politica che punti a valorizzare le risorse e le produzioni locali, a partire da quelle agro-alimentari.

Nel processo distributivo occorre misurarsi con le filiere lunghe del commercio e delle produzioni globali e con gli imperativi e la logica della competitività esasperata.

Uno degli effetti negativi e distruttivi della globalizzazione  è la colonizzazione  culturale e l’omologazione dei modelli di consumo e degli stili di vita come portato del controllo che le grandi Corporations esercitano sul processo produttivo e distributivo e sulle filiere produttive che valorizzano o penalizzano.

Il fatto che a Roma e in Italia ormai la grande distribuzione straniera  controlla la quasi totalità del  mercato dei consumi, costituisce di per sé un potente fattore di condizionamento sui produttori locali che non trovano sbocchi adeguati al mercato delle loro merci subendo pesanti condizionamenti sul sistema dei prezzi e su quella della  produzione stessa. La conseguenza oltre che sui produttori locali si ripercuote sulla rete tradizionale  della produzione artigianale e della piccola distribuzione commerciale.

 Nel Lazio, ad esempio, solo il 10% circa delle produzioni agricole  prodotte in loco viene consumato  dai cittadini  dell’area metropolitana romana.

La tendenza legata ai meccanismi della libera competizione globale non riguarda solo le filiere agro-alimentari ma la stessa produzione culturale e editoriale: libri, musica, film, ecc., che sono sempre più veicolati da grandi multinazionali che si apprestano a invadere il nostro paese e Roma in particolare come grande mercato di consumi.

Quanti sono i costi  che ricadono sui consumatori e sul sistema urbano dai meccanismi di approvvigionamento dei prodotti alimentari attraverso una filiera lunga, lontana dai luoghi di produzione,   con l’aumento dei prezzi legati al trasporto e  alla conservazione delle merci?

Oppure quanto costa alle comunità locali il mancato reinvestimento in loco  dei grandi profitti e del relativo valore aggiunto incamerato dalle grande distribuzione, nonché la mancata conservazione in loco delle innovazioni  e delle risorse  cognitive e organizzative delle imprese multinazionali? 

Ciò chiama in causa le politiche pubbliche  e il ruolo dei governi locali:

·        nella programmazione e nelle scelte che riguardano la politiche insediative della grande distribuzione;

·        nel favorire  la tutela delle risorse locali  e delle reti corte nel ciclo produzione-consumi, non solo dei beni di consumi agro-alimentari;

·        nel  promuovere  una  politica di difesa delle reti e delle filiere locali  attraverso  una produzione certificata e controllata legata al territorio e alle sue culture;

·        nell’assicurare nei mercati locali la tracciabilità  dei prodotti e delle materie prime utilizzate nella produzione agricola e garantire la sicurezza alimentare;

·        nell’incentivare lo sviluppo di reti commerciali locali ( fiere, gruppi di acquisto,  centri commerciali naturali, ecc.) dal produttore al consumatore che garantiscano qualità e prezzi, promossi di intesa coi governi, i produttori e i consumatori locali.

·        nel valorizzare  il patrimonio storico, artistico e i giacimenti culturali di cui è ricca la regione.

Intervenire a partire dalle risorse locali per valorizzarle in  un progetto di sviluppo integrato, partecipato e sostenibile significa quindi  innanzitutto una progettazione e una programmazione socialmente condivisa,  valutandone  le conseguenze e l’impatto sociale  sull’insieme del territorio locale e regionale.

Ad esempio uno sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse ambientali per favorire uno sviluppo turistico esasperato di una data località produce sicuramente effetti negativi   nel consumo di suolo, nella distruzione di risorse ambientali e paesaggistiche, penalizzando quindi la possibilità di diversificare e valorizzare tutti  i fattori dello sviluppo  locale.

Viceversa, invece,  tutelare quei luoghi  da attività edificatorie, comporta sicuramente una mancata crescita di attività produttive legate al ciclo edilizio, ma può preservare luoghi  e spazi pubblici a favore della qualità della vita urbana e di un turismo ecologicamente sostenibile.

 

La programmazione partecipata

Una politica che favorisca la nascita  di sistemi locali sostenibili ha bisogno  di una  nuova democrazia e di uno spazio pubblico partecipato di soggetti sociali, produttori, comunità e governi locali, di saperi, istituzioni culturali, conoscenze, che diano vita a un modello di sviluppo che veda protagonisti tutte le risorse e gli attori  locali, nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini.

Lo strumento della Programmazione negoziata e dei Patti territoriali che abbiamo praticato e conosciuto in questi anni era sostanzialmente fondato su uno scambio tra investimenti privati   e flessibilità dei diritti e del lavoro, mediato dalle istituzioni nazionali e locali che hanno favorito tali scelte   con incentivi fiscali e anche attraverso relativi atti di adattamento degli strumenti  urbanistici a queste politiche.

Sotto questo aspetto dovremmo ritenere conclusa questa modalità di relazione affermando invece nelle logiche dello sviluppo locale e della programmazione negoziata la salvaguardia dei diritti dei lavoratori e l’estensione degli ambiti  di partecipazione ad  altri attori  dello sviluppo territoriale.

In questo senso le piattaforme territoriali del sindacato, articolate per bacini e sistemi locali ottimali, devono svolgere una funzioni di catalizzatori di un processo di riorganizzazione e di sviluppo di una democrazia economica e di una  partecipazione sociale e pubblica al progetto di innovazione e di sviluppo locale.

I processi partecipativi devono fondarsi sul riconoscimento reciproco della pluralità di interessi che convergono nelle politiche di concertazione territoriale, in quella che può essere definita come una democrazia dei produttori che coopera, anche attraverso momenti conflittuali, alla definizione e gestione del progetto di sviluppo locale.  Anche per la nostra concezione della concertazione sostanzialmente triangolare fra sindacato, datori di lavoro e istituzioni si impone l’esigenza di una sua revisione per allargarla a tutti i soggetti, non escludendo  le associazione dei consumatori, quelle ambientaliste, e quelle dei cittadini interessati, gli istituti di ricerca, le banche locali,  in questo caso per favorire una politica di ricostruzione del credito locale  legato al territorio, distrutto da politiche  che hanno imposto un modello bancario astratto e universale.

Il ruolo della conoscenza  e della ricerca  non va pensata quindi  in funzione del rapporto diretto con l’impresa  o singoli settori, ma deve attraversare tutte le politiche  locali e regionali, le imprese, le istituzioni, i sistemi localiIl problema non è solo la crescita dimensionale delle piccole imprese, sostenuta da finanziamenti pubblici, per promuovere l’innovazione di prodotto, ma quello di sostenere e promuovere una innovazione a sostegno della integrazione produttiva e della ricostruzione e rafforzamento delle filiere e dei sistemi locali.

Deve  consistere  nella promozione di imprese socialmente ed ecologicamente responsabili negli incubatori locali, in un processo socialmente partecipato e cooperativo tra soggetti sociali, imprese, ricerca ed istituzioni che sostengono e promuovono innovazione e sviluppo sostenibile,  per migliorare la qualità della vita e dell’ambiente nelle nostre città.

Deve promuovere l’integrazione delle filiere  e la ricomposizione dei cicli in un ottica integrata e non settoriale e di specializzazione produttiva .

 La domanda pubblica e sociale può essere potente fattore di innovazione attraverso procedure di appalto e commesse che promuovano una domanda di beni e servizi innovativi, socialmente ed ecologicamente sostenibili.

La domanda e l’offerta di innovazione non è regolata infatti dalla logica spontanea del mercato. Le imprese tendono in realtà ad utilizzare solo quei fattori di innovazione che consentono il  ritorno di profitti a breve termine  e non è interessata a differire nel tempo il rientro dei suoi  investimenti. Sono necessarie quindi adeguate politiche pubbliche  che leghino le politiche per l’innovazione alle politiche di sviluppo locale, generando un mercato basato sulla domanda di qualità e di innovazione nei settori del risparmio energetico, nella riduzione dell’inquinamento urbano, nella mobilità sostenibile, nella bio-edilizia e nelle politiche di recupero del costruito, nel cablaggio delle città, per migliorare la qualità della vita, l’ambiente, la vivibilità urbana,  la qualità e sicurezza alimentare, e a sostegno di  un nuovo modello di welfare locale.   

  A tal fine gli  Enti Locali devono recuperare in pieno la loro funzione  di sede privilegiata della decisione  valorizzando la loro funzione di rappresentanza delle comunità locali e di promozione e  guida dello sviluppo locale  e devono promuovere la partecipazione  delle popolazioni  nei processi decisionali rendendo strutturali nel governo del territorio, dell’ambiente e dello sviluppo  gli impegni assunti con  la Carta di Aalborg e con l’adesione alle Agende 21  locali, fino alla sperimentazione  di forme di democrazia diretta, attivando forme di bilancio partecipativo  a livello regionale, municipale e locale, rafforzando e estendendo le prime timide esperienze in corso in alcuni municipi romani e le positive intenzioni già annunciate in tal senso dalla nuova Giunta regionale del Lazio .

 Il recupero di questa funzione democratica del governo locale mette in discussione un modello  di relazione come quello di una  “governance”  fondata sul su un peso decisivo dei poteri forti e delle grandi imprese,  attraverso meccanismi extraistituzionali contrattati fuori dalle sedi pubbliche  e dalla partecipazione pubblica.

I rapporti tra forze sociali e organizzazioni di interesse non sono più mediati, oggi,  dai partiti per effetto della crisi della rappresentanza .

La crisi dei partiti e la perdita della loro funzione di riflettere la pluralità degli interessi presenti nella società, ha creato un vuoto.

 Da ciò è scaturito un modello di governo che ha aumentato il potere dei sindaci e dei governatori nel governo del territorio, svuotando progressivamente la funzione di governo degli organismi elettivi in cui il  peso e il ruolo dei portatori di interessi  è stato sottovalutato dall’illusione decisionista basata sull’idea che per affermare in maniera più efficace l’interesse generale occorreva liberare la decisione  politica dai condizionamenti esercitati dai partiti e dagli organismi rappresentativi su cui veniva esercitata una pressione da parte degli interessi organizzati e dai movimenti  sociali.

La separazione tra politica e amministrazione ha alimentato questa ipotesi tecnocratica e decisionista attraverso l’idea che  una amministrazione più efficace passa attraverso la sua separazione dalla politica .

Il decisionismo tecnocratico  dimostra di non essere la soluzione adatta a occupare il vuoto lasciato dalla crisi della rappresentanza e del ruolo dei partiti.

Il governo del territorio e la promozione di uno sviluppo locale rifugge da un approccio decisionista e richiede più capacità di  cooperazione  tra Amministrazione e Politica e una diffusa partecipazione e mobilitazione di risorse, di interessi  e di competenze per affermare un modello di governance pubblica che non rifletta gli interessi esclusivi dei poteri forti e che includa nei processi partecipativi e decisionali le assemblee elettive e tutti  i portatori di interessi compresi quelli delle componenti più deboli della società.

 

La questione urbana

La trasformazione dei modi di produzione, i flussi migratori e  la globalizzazione  hanno  prodotto in questi ultimi decenni una profonda  ristrutturazione della configurazione sociale e dello spazio urbano  delle città .

Dalla città fordista ordinata e organizzata per funzioni - i luoghi della produzione, del consumo, della vita e della residenza- si è passati alla città postfordista caratterizzata dalla produzione diffusa nello spazio urbano, che tende a perdere le vecchie rigidità funzionali. La città si espande e si sviluppa senza un ordine razionale, si diffonde  disordinatamente nel territorio rendendo labile i suoi confini e lo stesso rapporto tra centro e periferie.

I processi di inurbamento delle popolazioni hanno aggravato i problemi di governo delle città e desertificato le zone rurali e i comuni più distanti dai grandi centri urbani con grave danno per l’equilibrio dei sistemi ambientali, del controllo del territorio, e delle attività agro-pastorali e dei servizi collegati alla cittadinanza.

L’effetto di tale processo è stata la centralizzazione dei servizi pubblici e privati fondamentali nelle  zone più urbanizzate, privando così intere popolazioni più periferiche di tutele e di diritti fondamentali nell’accesso ai servizi, accentuando i fenomeni di esclusione e di degrado urbano.

Di converso la maggiore concentrazione urbana ha provocato un aumento della domanda di servizi e di bisogni fondamentali per i cittadini, come  la mobilità, l’assistenza, le abitazioni , che diventano beni  sempre più scarsi e sempre meno adeguati a rispondere alle aspettative e alle domande crescenti di questi beni da parte delle popolazioni,  anche per effetto del deficit e della scarsità di risorse disponibili per gli enti locali, e per una concezione dei servizi ridotti sempre più a  conformarsi ad una logica di gestione aziendale  per inseguire il mito dell’efficienza e della riduzione dei costi.

Molti servizi sociali e pubblici sono così entrati in una logica aziendale, provocando precarietà diffusa negli operatori, una loro crescente scarsità nelle zone più periferiche,   e un connesso aumento dei costi al loro  accesso  per i cittadini e i  lavoratori. Si assiste in qualche modo al passaggio da una fase caratterizzata  da una condizione di sostanziale estraneità nel rapporto tra lavoro e città, tra conflitto capitale-lavoro e destino delle città, a una fase in cui tra lavoro, cittadinanza e territorio urbano si costruiscono e vivono nuovi nessi e relazioni che meritano di essere indagate .

Lo spopolamento dei piccoli centri e  la concentrazione delle popolazioni nelle aree  metropolitane, la crescita di periferie urbane senza qualità e senza servizi, hanno sostenuto nel passato l’espansione incontrollata delle città anche attraverso l’abusivismo edilizio, non solo dei ricchi, ma anche popolare,  per rispondere ad una domanda crescente di abitazioni. Questo processo ha  fatto lievitare i valori della rendita fondiaria arricchendo  i proprietari di suoli e scaricando sulle finanze pubbliche i costi  dei servizi primari fondamentali.

Oggi l’intreccio tra rendita finanziaria e investimenti immobiliari, la privatizzazione di un grande patrimonio edilizio pubblico operato attraverso le varie cartolarizzazioni,  hanno provocato un innalzamento dei valori immobiliari con un alto costo degli affitti che spinge migliaia di famiglie ad abbandonare i centri storici e le città e a trasferirsi nelle periferie più estreme e nei comuni limitrofi più piccoli, incrementando così il tasso di pendolarismo e di mobilità .

 I processi di globalizzazione  tendono infatti a ridisegnare le città, la loro composizione sociale e le loro funzioni inseguendo  le esigenze di valorizzazione delle sue  parti più pregiate nei servizi di eccellenza: finanza, comunicazione, turismo di lusso, servizi per la grande impresa pubblica e privata, nazionale o globale, come attrattori  di nuovi investimenti. I centri storici si svuotano dei loro residenti, diventano spazi  abbandonati al consumo e ai  ceti più ricchi,  mentre le periferie si popolano di  nuovi abitanti, che vi si trasferiscono dalle zone  centrali delle città   impossibilitati a competere con gli alti costi della rendita immobiliare. Il mercato diventa così lo strumento   che seleziona e gerarchizza  i soggetti, i luoghi,  le attività, le funzioni nello spazio  urbano.

I comuni tendono a favorire questi processi intravedendo in essi opportunità di investimenti e di sviluppo per le popolazioni locali, favorendole con le deroghe urbanistiche e gli  accordi di programma  che modificano le destinazioni urbane previste dai Piani regolatori senza avvalersi del consenso dei consigli comunali e delle popolazioni locali.

È l’urbanistica contrattata e flessibile  che ha introdotto nel governo del territorio urbano le ideologie neoliberiste e il mito del mercato e della superiorità dell’interesse dell’impresa sulla società e sulla politica che verrà ratificata da  una riforma urbanistica ( Legge Lupi) e da un disegno di legge sulla competitività  ( la legge-obiettivo sulle città), entrambe  in via di approvazione,  che sanciscono  la fine dell’ autorità pubblica sulla pianificazione urbanistica e il diritto a costruire per i proprietari dei suoli, per instaurare  il principio della libera contrattazione dei PRG e delle varianti urbanistiche con i soggetti proprietari ed economici interessati ( costruttori, proprietari di aree, speculatori immobiliari ), insieme all’abolizione degli standard urbanistici , cioè della garanzia per  i cittadini a usufruire di spazi collettivi, verde e servizi .

Il ruolo dell’urbanistica tende a  ridursi così ad una funzione ancillare rispetto a queste esigenze di mercato, affermando così il primato della deroga rispetto alla regolazione, ridotta in  sostanza ad un esito e a un risultato della  contrattazione  fra sfera pubblica e interessi privati, in cui  i cittadini  e i loro diritti non esistono   o ne risultano mortificati.

La crisi della grande impresa e della sua concentrazione nelle aree industriali e produttive, i processi di terziarizzazione  e di diffusione del lavoro nel territorio , i fenomeni crescenti di precarizzazione del lavoro, l’aumento del bisogno e del costo della mobilità, l’alto livello del costo delle abitazioni e delle locazioni,  la difficoltà di accesso ai servizi pubblici fondamentali, il degrado ambientale dei sistemi urbani dovuto all’inquinamento atmosferico provocato dal traffico e dall’uso di energia di origine fossile, rappresentano alcuni temi   da cui partire per  affermare e sostenere un progetto di città sostenibile.

 

Il caso Roma. La partecipazione per una città sostenibile e solidale

Con la fine del sogno della città industriale, che aveva animato la stagione del trionfo dell’industrialismo  negli anni ‘60 e ’70, è seguita a Roma la  fase della deindustrializzazione progressiva a partire dai primi anni  ’80 in cui il  motore dello sviluppo della città diventa il terziario, legato alle funzioni turistiche, culturali , religiose, e a quelle  congressuali  collegate alle direzionalità pubbliche. Roma è oggi una città prevalentemente terziaria con forti propensioni al consumo.

Le trasformazioni urbanistiche trainate dai processi di terziarizzazione hanno provocato una riconfigurazione della composizione sociale della città e del suo centro storico con una forte espulsione di abitanti  verso le nuove periferie e verso i comuni esterni alla città,  fenomeno aggravato di recente dalla vendita attraverso le varie dismissioni e cartolarizzazioni di un ingente patrimonio pubblico abitativo in particolare nel centro storico, che in pochi anni hanno  privato la città di circa 80 mila appartamenti che sono entrati nella sfera della proprietà privata,  e diventati preda della speculazione degli immobiliaristi, accentuando il fenomeno della fuga degli abitanti dal centro ormai in gran parte consegnato  alle nuove elite della economia e della finanza nostrana e globale. Questo processo è causa non secondaria del dramma che vivono in particolare gli anziani nella città di Roma sottoposti a meccanismi brutali di sfratto che ha visto consumarsi in questi giorni la  tragedia del suicidio di un anziano insegnante, frutto della disperazione  e della solitudine per un mutuo non concesso per poter mantenere l’affitto della sua abitazione.

Lo spopolamento progressivo del centro storico lo  consegna a ricchi facoltosi e a un terziario  di lusso, espellendo tutto il tessuto storico della rete commerciale e artigianale antico della città non in grado di competere con i nuovi prezzi imposti dal lievitare costante dei valori immobiliari, rafforzando così la sua  caratteristica di città monocentrica che  ingloba la  maggior parte dei servizi pubblici e  delle funzioni terziarie della città.

Le periferie continuano invece ad essere interessate marginalmente da opere e  interventi di riqualificazione per la scarsa propensione degli investitori  privati a valorizzare queste parti di città, e per la scarsità di risorse e  di progettualità pubblica, che spesso compete con i privati nella ricerca di occasioni di valorizzazione economica dei beni pubblici.

Il rapporto tra centro e periferie ha alimentato  il  dibattito pubblico  e urbanistico sulla città , fin dal secondo dopoguerra, al tempo dell’inizio della sua  crescita tumultuosa e disordinata alimentata dalle immigrazioni  di mano d’opera  edile  che partecipò allo sviluppo della città e che alimentò la  crescita di periferie abusive e  senza servizi, privati e pubblici .

La  crescita della città senza qualità urbana  pose la necessità  di  una sua riqualificazione attraverso  un decentramento delle funzioni terziarie pubbliche dal centro verso le parti più esterne della città, per contribuire alla riqualificazione delle sue  periferie,  con l’idea dello Sistema Direzionale Orientale  che doveva creare un polo direzionale nella parte est della città con il relativo trasferimento di ministeri e di altre funzioni pregiate.

Questo progetto  non è mai decollato ed  è stato  definitivamente abbandonato agli inizi degli anni ‘90, quando è iniziato il dibattito sulla necessità di dotare la  città di un nuovo Piano Regolatore, a cui veniva demandato la funzione di ripensare la progettazione di un nuovo modello urbano.

Affrontare oggi  il tema della sostenibilità  a Roma vuol dire affrontare il tema della qualità dello sviluppo urbano della città con tutte le distorsioni e le contraddizioni prodotte nel suo tessuto sociale, nel sistema della mobilità, nella qualità della vita dei cittadini e nella qualità dell’offerta abitativa e dei servizi pubblici.

Valorizzare la città non deve indicare  un’idea di competizione del pubblico con la rendita privata, né   consegnare il futuro della città agli immobiliaristi privati e alla logica che la sottende: la tentazione del pubblico di partecipare al banchetto vendendo i gioielli di famiglia nelle parti più pregiare della città, o consentendo audaci trasformazioni urbanistiche sui suoli di proprietà pubblica, per  fare cassa. Né tanto meno una idea dello sviluppo della città  in competizione con altri sistemi urbani per attrarre investimenti esterni, spesso non qualificati,  ma incentivati  dalla possibilità di accesso alla domanda di consumi di una popolazione di circa tre milioni di abitanti.

Al contrario, deve assicurare una  riqualificazione urbanistica dei suoi quartieri;  la tutela del suo patrimonio storico, culturale, architettonico, archeologico e ambientale; la difesa delle identità sociali, culturali, storiche dei suoi quartieri e dei suoi abitanti, dei saperi locali, a partire dal centro storico.  Deve  affermare una nuova visione della  città policentrica prevista dal nuovo PRG, progettata sulla centralità del servizio pubblico e delle funzioni pregiate, su una rete  di trasporto pubblico a rete  che connetta le varie pari della città e colleghi tra loro  i sistemi periferici e semi-periferici,  privilegiano le infrastrutture in ferro e una mobilità  che abbatta drasticamente l’uso del mezzo privato; deve attuare provvedimenti strategici come la chiusura  al traffico privato nel centro storico, per progettare una diversa mobilità sostenibile,  ad iniziare da via dei Fori Imperiali con la  creazione del Parco dei Fori e dell’Appia antica, secondo l’originario progetto di Argan e Petroselli.

Per affermare  l’idea di una città solidale occorre poi, ad esempio,   sostenere un’ idea di  socialità e di economia solidale  che non marginalizzi  ed escluda gli anziani,  ridotti spesso alla solitudine in una città  che sembra negare    ai più deboli il diritto ad una piena cittadinanza;    garantire il diritto alla casa e il suo accesso alle fasce più deboli della popolazione (anziani, lavoratori precari, giovani coppie, immigrati) con programmi di edilizia sociale e sovvenzionata;  incentivare  esperienze di autorecupero e riuso a fini sociali e per uso collettivo degli edifici pubblici dimessi   favorendo  una politica di difesa della residenzialità nel centro storico; garantire a tutti i cittadini e alla città un trasporto pubblico sostenibile;   offrire servizi gratuiti per anziani, giovani disoccupati, lavoratori precari e studenti più bisognosi  nei trasporti , nella cultura, nella formazione; sostenere   il  reddito per  aree particolari di lavoratori  con forme sperimentali di salario sociale.

Valorizzare in questo modo la città significa progettarla insieme ai suoi cittadini.

Lo sviluppo di processi partecipativi, dei processi di autorganizzazione sociale, dell’associazionismo ha prodotto in questi anni  la proliferazione di nuovi istituti intermedi fra democrazia delegata e democrazia diretta: una  diffusione di forme originali di bilancio partecipativo, di Agende 21 locali; di contratti di quartiere, laboratori urbanistici, Piani strategici, Progetti Urban, Equal, Patti territoriali, Progetti integrati di sviluppo locale e di recente, a Roma , dello strumento delle delibere di iniziativa popolare promosse  dai cittadini,   che configurano, nel loro insieme, la rete di un movimento civico che vuole affermare un ruolo dei cittadini nella progettazione della città e nelle logiche della sua trasformazione.

Le città,  a partire dalla Conferenza dell’ONU a  Rio de Janeiro del 1992  che adotta il Programma d’azione “Agenda 21”,  diventano protagoniste di obiettivi di sviluppo urbano sostenibile .

Con la firma della Carta di Aalborg nel 1994 le città e Regioni europee si sono impegnate ad attuare l’Agenda 21 a livello locale elaborando piani di azione sostenibili per le città europee.

La Carta afferma tra i suoi principi e obiettivi che  (art. 1.2) “ La giustizia sociale dovrà necessariamente fondarsi sulla sostenibilità e l’equità economica, per le quali è necessaria la sostenibilità ambientale”, e sostiene (art.1.13) “Il ruolo fondamentale dei cittadini e il coinvolgimento della Comunità”,  nel loro  “diritto all’accesso all’informazione per essere messi in condizione di partecipare al processo decisionale”.

A partire propria da queste novità il dibattito sul nuovo PRG di Roma ha segnato un punto importante di avvio di una nuova fase della partecipazione attraverso l’approvazione di una norma nelle Norme Tecniche di Attuazione che prevede  un Regolamento, ancora non approvato,   che dovrà definire metodi e ambiti della partecipazione dei cittadini nelle procedure decisionali.

Per la prima volta tra le regole che disciplinano le decisioni in materia urbanistica è stata così introdotta la partecipazione pubblica nella definizione dei progetti di trasformazione urbana. Si tratta di una innovazione democratica fondamentale che se combinata opportunamente con gli obiettivi e le procedure democratiche delle politiche pubbliche elaborate dal Piano Regolatore Sociale può aprire le porte ad una nuova stagione di una politica che decide e sceglie attraverso le forme di una democrazia allargata e partecipata .

I cittadini e i soggetti deboli della partecipazione,  non più e non solo la rendita e i portatori di interessi proprietari,  possono e devono diventare invece i soggetti e i  protagonisti veri delle politiche di governo del territorio e degli obiettivi della trasformazione urbana.

Perno di una nuova partecipazione sociale  deve essere il Municipio, come catalizzatore dei processi partecipativi, che mette a disposizione  spazi e  servizi, informazioni  e documentazione da cui deve trarre alimento la partecipazione pubblica.

Una importante sperimentazione  è in atto nel nostro paese attraverso la Rete del Nuovo Municipio che propone esperienze di bilanci partecipativi da parte dei governi locali  che prevedono la cessazione parziale della sovranità dei governi locali sulle decisioni di spesa, lasciando questa facoltà a decisioni costruite con la partecipazione organizzata dei cittadini delle  comunità locali e dei quartieri delle grandi città sulla base di un processo comune di valutazioni dei bisogni e delle priorità di spesa e di investimenti delle risorse pubbliche.

Al neocentralismo regionale, alla deriva localistica ed etnica  del federalismo leghista occorre contrapporre il federalismo municipale solidale per  fare società locale, ricostruire cittadinanza e comunità multiculturale, inclusione sociale, per  costruire reti cooperanti di città e di sistemi territoriali locali.

 

Cittadinanza, beni pubblici, democrazia partecipata

 

Per  una nuova alleanza tra lavoro e cittadinanza

Affermare la concezione di una città sostenibile implica l’assunzione, quindi,  innanzitutto dell’idea di una città solidale, che vuole affermare la sua libertà salvaguardando la città come bene pubblico,  come  prodotto sociale che nasce e si afferma in un grande impegno collettivo dei suoi cittadini,  contro l’ideologia della modernizzazione come liberazione da ogni controllo e da ogni regola e contro l’idea della città espressione  di un progetto tecnocratico e di un compromesso tra poteri forti e sfera pubblica.

Significa affermare   i valori e i principi della cittadinanza e dei diritti che derivano per tutti quelli che ci vivono e lavorano.

È  uno dei tanti  paradossi della globalizzazione consentire  la libertà per le merci, le informazioni e per la finanza di circolare liberalmente  per il mondo, quando  innalza invece ostacoli e steccati, ad esempio,  alla inclusione e ai diritti  dei migranti; quando “confina” i ricchi in case-fortezza superprotette e  ghettizza  e isola le culture diverse; oppure separa razze,  popoli,  religioni e lingue disseppellendo le antiche divisioni etniche che sembravano scomparse dalla storia. I conflitti urbani, che oggi promanano  dalla crisi della coesione sociale, della solidarietà, della multiculturalità, della tolleranza religiosa, segnano quotidianamente le aree di degrado, di emarginazione ed esclusione dalla cittadinanza fin dentro le mura delle nostre metropoli e nelle nostre periferie, assediando le aree di “benessere”   delle nostre comunità e città sotto le sembianze del conflitto etnico, religioso e culturale.

 Ancor prima che contro gli extracomunitari, la curvatura xenofoba  del conflitto sociale nasce nel nostro paese con il  movimento leghista  contro gli stranieri  allora identificati con  gli immigrati meridionali, da “deportare” al Sud, non casualmente coeva  con la teoria e la prassi della fine del lavoro e  del conflitto sociale di classe, di cui si era fatta interprete  la nuova sinistra  post-comunista, emersa dalla rivoluzione del 1989. La trasformazione del conflitto sociale in conflitto territoriale  ha provocato una crisi di identità nelle classi subalterne, che  nelle  regioni più  ricche si affidano alla rappresentanza di movimenti separatisti e populisti, offuscando e indebolendo il valore dei principi di solidarietà e uguaglianza su cui si era fondato il patto costituzionale  di cittadinanza.

Storicamente la cittadinanza è stata infatti il portato di lotte e di conquiste di diritti civili, politici  e  sociali che hanno visto protagonista il movimento operaio e le organizzazioni sociali e politiche che ad esso facevano riferimento, nasce da un incontro positivo tra la cultura liberale e l’universalismo del movimento socialista.

La Costituzione, che dopo la caduta del fascismo affermò questo nesso tra lavoro, diritti e cittadinanza tra i suoi principi fondamentali, ha consentito  l’ingresso dei lavoratori nella sfera della cittadinanza e del godimento di diritti sociali fondamentali, come un salario dignitoso, la retribuzione per periodi di inattività, la formazione, la previdenza, la sicurezza, ecc.

Con l’affermazione della rivoluzione neo-libersita, questo circuito virtuoso tra lavoro e cittadinanza si è spezzato. La segmentazione del conflitto sociale secondo linee territoriali ed etniche, la frantumazione dell’impresa e del lavoro, la crisi della funzione unificante sul piano sociale svolta dal movimento operaio e dal conflitto di classe  nel secondo dopoguerra, la svalorizzazione crescente del lavoro sotto i colpi della globalizzazione, hanno indebolito gli architrave che  hanno sostenuto  l’affermazione e l’estensione dei diritti di cittadinanza. La precarietà della prestazione lavorativa, la sua temporaneità, la riduzione del valore della sua remunerazione, la limitazione delle prestazioni sociali e previdenziali garantite dallo Stato, l’elevato incremento dei costi  della riproduzione sociale urbana, casa e trasporti in primo luogo,  rende il lavoro non più garante dell‘affermazione della cittadinanza e dei diritti ad essa correlati.

Occorre ripensare oggi al rapporto che intercorre tra lavoro e cittadinanza,  basato nel “passato”  sulla forza delle funzione inclusiva del lavoro e dei diritti ad esso correlati, alla luce dell’indebolimento di questa sua funzione nei nuovi rapporti di potere  fissati  tra lavoro, rendita e profitti, così come risultano  delineati  dai meccanismi finanziari, politici, fiscali che decidono della redistribuzione della ricchezza prodotta, a tutto svantaggio del lavoro.

Tra lavoro e cittadinanza le “vecchie” gerarchie  sono ormai impraticabili  e c’è bisogno di lavorare ad una sintonia  e a una condivisione del destino delle città, delle condizioni della cittadinanza, del disagio sociale e urbano indotto dalle trasformazione del lavoro e delle città.

  La questione urbana e la questione sociale ne risultano, così,    intrecciate e le antiche separazioni  insostenibili, senza più alcuna ragion d’essere. Il disagio  urbano legato al degrado ambientale, della vivibilità e della qualità della vita in particolare nelle periferie delle città  medio-grandi, e alle difficoltà dell’accesso ai servizi,  si sposa al disagio sociale  generato  dalla precarizzazione crescente del lavoro e dagli alti costi della sua riproduzione sociale, provocati  dai processi di svalorizzazione del lavoro e da quelli di privatizzazione che hanno investito in questi anni  la sfera dei servizi e dei beni pubblici.

 

 

 I beni pubblici: da beni privatizzabili  a beni comuni

Nella logica neoliberista il mercato  e il privato sono gli strumenti migliori per una corretta allocazione delle risorse e una più  efficace  lotta alla povertà. Il pubblico e l’intervento dello stato sono accettati solo in funzione di sostegno  all’impresa privata, per creare appunto i contesti più favorevoli all’impresa nel  produrre profitti.

 Lo stato finanzia invece  la ricerca militare, le spese di guerra, le politiche di controllo globale delle risorse strategiche come l’energia fossile, l’acqua; privatizza i servizi pubblici finanziando le imprese private a cui ne affida la gestione, escludendo così parti ingenti della popolazione mondiale dal godimento di diritti fondamentali.

Aumenta  così la  disuguaglianza e la povertà anche nei paesi ricchi dove fasce sempre numerose di cittadini non hanno accesso ai servizi essenziali come l’istruzione, la sicurezza sociale, la salute, la pensione, diritti che sembravano acquisiti per tutti e che oggi sono rimessi in discussione e affidati sempre più all’intervento del privato.

La globalizzazione, la mercificazione e privatizzazione dei beni collettivi diventano così l’occasione per creare un nuovo mercato globale dei beni comuni sottraendoli alle popolazioni locali e agli stati.

L’accordo GATs in ambito WTO prevede infatti la  liberalizzazione di risorse e di servizi pubblici essenziali come l’acqua, l’istruzione, la sanità, i saperi locali e la brevettazione del vivente, nonché la  tutela dei brevetti delle multinazionali che vieta e limita l’accesso ai farmaci da parte dei paesi poveri.

Anche l’Unione Europea  aderisce alle politiche di liberalizzazione e privatizzazione sia sul piano interno con la proposta di direttiva Bolkestein sui servizi economici di interesse generale, sia nei confronti di paesi  terzi con gli EPA, accordi di libero commercio con i paesi del Sud del mondo, come  forma di neocolonialismo per conquistare  questi mercati a danno della economia  di quelle  popolazioni locali, mettendo  a rischio le basi stesse della sopravvivenza di intere comunità e nazioni.

 La recente estensione dell’area di intervento del WTO all’agricoltura e ai servizi  minaccia sistemi di produzione  che  costituiscono  la  base materiale  per  la  sostenibilità  di  intere popolazioni  nel mondo.  L’ agricoltura   rappresenta  non  solo  un  sistema produttivo ma una fonte di vita per miliardi di persone basata sull’equilibrio tra natura e saperi locali.

L’affermazione delle culture neoliberiste come portato della nuova  modernità con le liberalizzazione e privatizzazione  dei beni pubblici da affidare al mercato e alla competitività, ha provocato la devastazione degli ecosistemi naturali, con sfruttamento e consumo del suolo, distruzione delle risorse idriche, spopolamento delle campagne e alti consumi di energia fossili anche per alimentare uno sviluppo e un consumo distorto ed energivoro nei paesi più ricchi.

Alla  ideologia  del privato  che fa dell’impresa e della ricerca del profitto il mezzo  più razionale per produrre e distribuire risorse nel modo più efficiente possibile, che considera i beni nella loro dimensione economica, acquisibili da parte di ogni singolo individuo  attraverso il mercato, corrisponde sempre più la negazione della società come luogo della coesione   sociale e l’affermarsi di un egoismo competitivo che mina la sicurezza individuale e collettiva .

La scarsa responsabilità sociale  che mostra l’impresa nella produzione di esternalità negative che scarica sull’ambiente esterno e sulla società  ne mina la legittimità agli occhi della società  nella sua pretesa di operare per il bene comune.

Di fronte alla incapacità del mercato e dell’impresa privata di assicurare la sicurezza collettiva occorre rilanciare  un progetto socialmente partecipato che assicuri la responsabilità sociale dell’impresa, la solidarietà e  il vivere insieme,  attraverso la difesa e il rilancio di una strategia dei beni comuni e di un nuovo welfare.

Cos’è un bene comune?Si può definire il  bene comune come l’insieme di principi, istituzioni, mezzi e pratiche che la società si dà per garantire a tutti il diritto a una vita umanamente dignitosa, tenendo conto del diritto alla vita delle generazioni future”. “Il loro accesso, in quantità e qualità  sufficienti alla vita, fa parte della sfera dei diritti umani. La proprietà, la gestione e il controllo di questi beni e servizi devono essere pubblici “( R. Petrella, 2004).  

Le classi di beni pubblici, che possono essere gestiti “in comune”, sono molteplici: quelli “naturali”  come l’aria, l’acqua, l’energia solare, la terra demaniale; e quelli “sociali” prodotti dalla decisione dell’uomo come la cultura e la conoscenza, l’informazione, l’ istruzione, i saperi ; e servizi pubblici come  la salute,  la mobilità,  la sicurezza.

La caratteristica fondamentale di un  bene pubblico  è data dalla non rivalità e non esclusività per l’accesso, contrariamente a quello che accade per i beni economici privati, e  su cui si esercita una proprietà e una responsabilità collettiva.

Il dibattito in corso  sui beni comuni  intende riportare alcuni di questi beni fondamentali a  base di un sistema di diritti  inalienabili  e di una cittadinanza solidale e responsabile.

In questa accezione deve essere considerato comune quel bene  essenziale e insostituibile per la vita individuale e il vivere insieme, non privatizzabile,  che richiede un suo governo democratico  fondato sulla  trasparenza , sulla partecipazione e sul controllo sociale, da sottrarre alle logiche del privato e di una gestione burocratico-statale.

 Come si  conquistano i  beni pubblici a questa nuova funzione?

Innanzitutto attraverso un rientro del “pubblico” dalle  spinte privatizzatrici, recuperando una loro funzione di gestione,   regolazione e controllo su questi beni. In questi anni sotto la spinta   neoliberista molte di queste  funzioni e servizi sono stati in parte privatizzati o comunque  esternalizzati, imponendo una logica aziendalista nella loro gestione che ha relegato la proprietà pubblica ad un ruolo marginale, in nome di una presunta superiore capacità del mercato di razionalizzare e di efficientare le risorse pubbliche .

Le politiche sociali sono diventate così un onere  e un costo per l’economia e per i bilanci pubblici, e il welfare è stato in qualche modo rimesso  in discussione.

La competizione tra soggetti diversi nell’offerta di beni pubblici non produce, però,  come nei beni economici, a parità di qualità,  un’ abbassamento dei prezzi, né un elevamento della loro qualità. Paradossalmente può avere un effetto opposto: un aumento dei prezzi e una riduzione degli standard di qualità, escludendo una parte dei cittadini dal loro godimento.

 La liberalizzazione dei beni pubblici e l’apertura alla concorrenza, introduce una logica di mercato con due effetti:

a)      riduzione  del numero dei cittadini che accede al loro godimento per effetto della selezione   operata dal mercato, sulla base del reddito disponibile;

b)      abbassamento della qualità dei beni e servizi, attraverso la riduzione degli standard di qualità  del lavoro e dei  servizi causata dalle logiche della riduzione dei costi e della redditività dei fornitori  che operano nei settori liberalizzati o esternalizzati ( trasporti, sanità, mense, assistenza,ecc,)  con le varie forme di appalto, sub-appalto e di accreditamento.

 

Questo processo ha impoverito l’offerta di  servizi pubblici e la loro qualità, facendo lievitare i costi e impoverendo il lavoro reso più precario e dequalificato da modalità contrattuali che hanno preso il sopravvento, snaturando anche il concetto di sussidiarietà  e la funzione e il ruolo del terzo settore che da componente aggiuntiva e volontaria del sistema pubblico di sicurezza sociale, ha via via sostituito le stesse funzioni pubbliche divenendo un veicolo attraverso cui si sono affermate forme di cooperative sociali spurie e non sempre genuine che partecipano alla destrutturazione del servizio pubblico, come nel caso della sanità e dell’assistenza sociale.

L’ esperienza dei paesi scandinavi dimostra invece che il welfare e  il pubblico sono una risorsa per lo sviluppo di un paese e di una comunità. Con  una alta spesa sociale del 33% del  PIL (mentre l’Italia è al 23%); con una fiscalità generale che vanta un  prelievo medio del 50% del reddito (mentre da noi si vuole portare l’aliquota massima al 33%); con un sostegno alla  disoccupazione, anche per quelli che non hanno mai lavorato, della durata massima di 4 anni che oscilla tra il 50 e il 90% dell’ ultima retribuzione; con  l’accesso gratuito al sistema universitario e un sussidio mensile per gli studenti, oggi il  modello scandinavo   viene studiato come modello- tipo in ambito OCSE, con la sua previsione di crescita nei prossimi due anni superiore alla media dell’UE mentre l’Italia è in piena recessione e la Germania non sta meglio.

Una politica del welfare fondata sui beni comuni  può diventare  un asse strategico per una nuova politica confederale nel territorio fondata  sulla partecipazione, sulla trasparenza nella gestione dei servizi pubblici locali, che devono affermare il loro carattere universalistico per  assicurare i diritti di cittadinanza.

Ciò chiama in campo il ruolo e la funzione del pubblico  e del lavoro pubblico.

 

Il ruolo e il futuro del pubblico

Le modalità di gestione e di organizzazione dei servizi pubblici  da parte delle istituzioni e  delle aziende pubbliche  spesso ostacolano l’accesso dei cittadini al loro godimento. Una gestione burocratica e centralistica  da parte degli organismi di gestione  e una organizzazione del lavoro che estranea i lavoratori e i cittadini- utenti  dalle modalità della loro erogazione, produce di norma  un servizio di scarsa qualità, non mirato ai bisogni veri  da soddisfare, e una visione corporativa nei rapporti tra lavoratori e management pubblico.

I processi di liberalizzazione e le conseguenti esternalizzazioni e privatizzazioni hanno accentuato questi caratteri assumendo la componente economico-finanziaria come il criterio- guida per determinare e valutare il lavoro e i servizi. La crisi della separazione tra Amministrazione e Gestione che ne è derivata, anche con l’introduzione dello spoil system, ha accentuato la deresponsabilizzazione delle istituzioni pubbliche dallo loro gestione.

 Si ripropone con forza le necessità di una riflessione seria e scevra da preconcetti ideologici su come vada gestito il bene  pubblico e su quali invenzioni politiche adottare per la sua conservazione.

Ma c’è davvero una dismissione dell’intervento pubblico in economia?

Questa  osservazione  rappresenta il cuore del problema   che la nostra democrazia ha di fronte. Oggi infatti contrariamente a quanto professa l'ideologia liberista non  c'è nel mondo una vera dismissione dell'intervento pubblico in economia. Ci sono  tagli per i servizi pubblici e per politiche di sostegno ai bisogni  sociali, ma ingenti risorse pubbliche  sostengono l'economia di guerra   per controllare l'accesso alle riserve mondiali di energia e alle risorse naturali o per   sostenere le esportazioni agricole dei paesi ricchi  nei paesi poveri del  Sud del mondo.  La sfida, anche a livello globale, è chi e cosa deve servire il pubblico: se il  mercato e le imprese sovranazionali  oppure politiche di giustizia sociale  e di accesso ai beni pubblici delle popolazioni  del Nord e Sud del mondo.  Non si tratta di scegliere tra il fondamentalismo di mercato e il vecchio  statalismo comunista o socialdemocratico.

Il problema risiede  nella costruzione  di un nuovo spazio pubblico democratico e partecipato di governo  democratico e sostenibile dell'economia e dello sviluppo globale che assicuri l'accesso ai beni comuni globali, acqua, salute, energia,  istruzione, ambiente, ecc., che non possono essere prodotti e gestiti dal  mercato.

 La dimensione e il ruolo  del pubblico  si deve  misurare nella sua capacità di essere all’altezza di questa sfida.  Purtroppo il mito del  liberismo mercantile ha pervaso la cultura politica  anche della sinistra che pensa che il mercato sia il modo più efficiente  per allocare le risorse pubbliche.

Il caso Eni-Enel  è  emblematico. Sono, queste,  sì aziende  parzialmente e formalmente pubbliche, ma si comportano  come aziende private a tutti gli effetti  che si preoccupano di remunerare  l'azionista e non di garantire servizi per i cittadini a costi equi. Eppure la strategia energetica del paese, un bene pubblico fondamentale, è affidata a loro, mentre incombe una loro ulteriore  privatizzazione.

Riportare nell'ambito di una gestione pubblica e partecipata  la gestione  di servizi e beni pubblici  fondamentali è una questione decisiva per la  qualità e lo sviluppo della nostra democrazia e per la costruzione della  coesione sociale che rischia di essere frantumata da politiche scriteriate  di liberalizzazioni e privatizzazioni, promosse anche sotto la formula  della gestione mista pubblico-privato.  Certamente  occorre rivedere e rielaborare le nostre convinzioni sul concetto di pubblico, e che una contrapposizione  pubblico- privato di tipo tradizionale non aiuta questa ricerca.

 

 I servizi pubblici locali e i diritti di cittadinanza

A base di un nuovo modello di sviluppo locale c’è la domanda  e il bisogno di sicurezza  e di beni pubblici  che proviene dai cittadini, sempre più preoccupati del futuro, che non trova adeguate risposta nella  attuale capacità del potere pubblico di soddisfare in qualità e  quantità.

 In questi anni i Servizi Pubblici Locali  sono stati interessati da processi di liberalizzazione e di parziale privatizzazione. Gran parte dei SPL, pur liberalizzati,  sono rimasti  in mano alla gestione pubblica ( in house)  e in alcuni casi,  come nelle Spa,   a maggioranza pubblica ma  gestite con una logica di impresa, anche se da più parti oggi si preme per l’apertura alla concorrenza di questi servizi.  Fanno  riflettere  le dichiarazioni del presidente aggiunto di Federutility, Mauro d’Ascenzi,  che di  recente ha affermato in una intervista su Il sole 24 ore, commentando i risultati positivi in termini di utili delle  SPA ex municipalizzate, che “ se queste aziende macinano utili è anche grazie alla robusta cura di efficienza cui sono sottoposte  con la trasformazione in moderne società  di capitali e al fatto di essere entrate  nella logica del diritto privato”.

Occorre riflettere, a mio avviso, pure nel sindacato, quando si tratta di beni pubblici fondamentali, anche sulla forma più adeguata  alla loro gestione.  Nel caso, ad esempio, di un bene comune riconosciuto come l’acqua, dobbiamo interrogarci se la forma della Spa sia la più adeguata a tutelarlo e a garantirne il suo controllo democratico  da parte dei cittadini e delle istituzioni pubbliche. La logica e l’interesse dell’azionista  rischia in questi casi  di prevalere sulla missione pubblica e, qualche volta, anche sulla necessità di tutelate i diritti dei lavoratori da processi di precarizzazione e di  riduzione  della occupazione, che spesso e paradossalmente contribuiscono a massimizzare il valore azionario dell’impresa stessa. 

La gestione secondo criteri privatistici di alcuni   SPL ha a volte  allontanato la loro gestione   dal territorio e  indebolito il ruolo di programmazione  dei comuni espropriando in parte le assemblee elettive dal ruolo di programmazione e controllo, con un trasferimento delle conoscenze tecniche,  gestionali, economiche verso il settore privato .

Anche la scelta di   aziendalizzare  alcuni servizi pubblici, pensata per introdurre criteri di  efficienza e qualità nella loro  gestione, spesso è stato  il veicolo per perseguire obiettivi  di riduzione dei costi, ottenuti  attraverso  più  o meno estesi processi di esternalizzazione e di precarizzazione del lavoro, non riuscendo in diversi casi nemmeno a perseguire tale  obiettivo, come nel caso della  sanità nel Lazio.

Il Lazio è al primo posto in Italia  per la  spesa  per sanità e assistenza, il 260% della spesa media nazionale, che riflette gli sprechi del sistema ospedaliero regionale  verso il finanziamento alle cliniche private, accentuate con la gestione della giunta Storace,  e che configge con le insoddisfazioni dei cittadini verso i servizi ottenuti.

Una denuncia documentata dalle organizzazione sindacali  presso il S.Camillo- Forlanini di Roma rileva in realtà che gli appalti di servizi affidati ai privati hanno fatto aumentare i costi senza migliorare la qualità dei servizi, con appalti scaduti da anni e affidati in regime permanente di proroga , senza gara e con trattativa privata.

 In  questa logica  il cittadino diventa un cliente e non più utente di un servizio pubblico  regolato e gestito con criteri di pubblica utilità e sotto la diretta responsabilità di un gestore pubblico.

È necessario il riconoscimento del valore sociale dei servizi pubblici locali sottraendoli alle logiche di impresa.

Come si recuperano questi beni alla loro funzione originaria di beni disponibili per i cittadini, sottoposti a una gestione pubblica e a un controllo democratico?

Come si  rafforza un controllo pubblico dei governi locali e dei cittadini sulla gestione dei  servizi pubblici fondamentali come l’acqua, la salute, l’energia?

C’è una forte domanda di pubblico e di sicurezza nella società italiana. Dopo la sbornia liberista degli ultimi decenni cresce l’esigenza di una  gestione pubblica delle principali istituzioni di welfare, a partire da scuola, sanità e pensioni a sostegno del bisogno di riaffermare i valori della cittadinanza e dei diritti ad essa legati.

La mappa del  disagio a Roma e nel Lazio riguarda i  senza fissa dimora, gli anziani,  gli immigrati, le nuove povertà, la precarietà socio-economica, l’emergenza abitativa, la difficoltà e i costi della   mobiltà, la  devianza giovanile con  assenza di spazi di socializzazione, la carenze di servizi pubblici nelle zone periferiche della città,  i tempi di  attesa   troppo lunghi nella sanità pubblica e una informazione inadeguata per l’accesso ai servizi rispetto alle esigenze dei cittadini.

Per rispondere a queste difficoltà in presenza di una  riduzione delle risorse finanziarie a disposizione degli enti locali è stata  rafforzata la presenza del privato nella gestione dei servizi pubblici .

La sussidiarietà da modalità attraverso cui il privato interveniva con una logica di complementarietà nel fornire servizi pubblici , ha assunto sempre più la forma di sostituzione del servizio pubblico da parte del privato. Si invoca oggi infatti la sussidiarietà a rovescio, dove sono le istituzioni pubbliche che devono dimostrare la necessità del loro intervento qualora i privati non fossero in grado di assicurare i beni e servi comuni.

Non si tratta oggi di fronte ai fallimenti del mercato di riproporre una gestione burocratica e statalista dei servizi pubblici da contrapporre al privato. Occorre ridefinire il concetto e la funzione del pubblico e i criteri della sua gestione da fondare sulla trasparenza,  sulla partecipazione e  sul controllo dei lavoratori e dei cittadini. La risposta alla privatizzazione del pubblico come presunto veicolo di efficienza e di razionalità, deve ricercarsi nella ri-pubblicizzazione del pubblico.

Una strategia della cittadinanza fondata sui beni comuni e sulla loro valorizzazione  deve garantire  l’accesso ai beni  pubblici fondamentali della società a tutti.

La  condizione è che la produzione e la gestione di questi beni ritornino in mano pubblica attivando forme di partecipazione sociale sulla loro gestione, programmazione e  controllo, a partire dalle modalità di composizione dei consigli di amministrazione dei servizi pubblici locali, che devono essere aperti alla partecipazione dei cittadini  e di loro dirette rappresentanze.

 

La politiche delle risorse e la questione fiscale

Le  carenze dei servizi pubblici  e lo slittamento verso il privato hanno fatto lievitare in questi anni i costi per i cittadini per il  soddisfacimento di questi beni fondamentali. Un loro finanziamento pubblico presuppone la disponibilità di risorse adeguate.

Ma le  risorse per gli enti locali sono sempre più scarse. Nel triennio 2003-2005 i tagli operati nelle finanziarie hanno raggiunto la somma di 4,6 miliardi euro. L’80% dei comuni è costretto ad aumentare le tasse locali per mantenere  un livello di servizi accettabile.

Come si finanziano i servizi pubblici, con quali risorse ?

Come si coinvolgono e si condividono con i cittadini la gestione di questi servizi, i loro costi, la qualità delle loro prestazione, la trasparenza nella loro gestione?

Innanzitutto la presunta  povertà delle finanze pubbliche locali dipendono in realtà dalle scelte  e dalle preferenze dei cittadini, dalle scelte politiche e   delle istituzioni locali in ordine alle priorità delle spese per i servizi pubblici e ai criteri della fiscalità accettabili per finanziarli.

Si tratta di scegliere tra mercato e guida pubblica.

Il mercato concepisce i servizi sociali solo come merci che si pagano e non come diritti di cittadinanza.

La guida pubblica di uno sviluppo locale equilibrato e sostenibile radicato nel territorio, deve assicurare la promozioni di diritti, solidarietà e equità, coesione sociale   per i suoi cittadini.

A tale fine la leva fiscale per assicurare adeguate capacità di spesa diventa fondamentale.

Un coinvolgimento fiscale e una partecipazione dei cittadini al finanziamento dei beni comuni presuppone anche un loro coinvolgimento pieno e democratico  nella definizione dei beni da salvaguardare e nella loro gestione e controllo.

Presuppone una politica di difesa della loro dimensione pubblica per contrastare i processi di liberalizzazione e di privatizzazione dei servizi pubblici  perseguiti in ambito WTO e in particolare una netta opposizione delle comunità locali alla Direttiva Bolkestein, in particolare alla introduzione della norma sui paesi d’origine per i servizi economici di interesse generale.

Non si tratta di pensare ad  un loro semplice ritorno alla proprietà statale, ma di affermare criteri di proprietà e di gestione pubblica affidati alle comunità locali e alla società civile, all’interno della rifondazione di un nuovo spazio pubblico.

La gestione pubblica deve poter operare sul territorio di appartenenza e agire fuori di esso solo  sulla base di accordi di programma  per il co-sviluppo con altre regioni, anche del Sud del mondo, in un ottica non neo-coloniale.  La produzione e distribuzione di beni deve essere affidata alle autorità locali e territoriali, e  alle rappresentanze dei cittadini e della società civile la funzione di  controllo pubblico, la gestione e l’amministrazione invece ai soggetti politici e istituzionali. L’obiettivo deve  quello di rendere trasparente l’operato della pubblica amministrazione creando un clima di fiducia tra istituzioni e cittadini e promovendo un processo partecipativo sia nella ricerca di risorse e sia nel come spenderli.

Per recuperare le risorse fondamentali per finanziare i beni pubblici e comuni non basta la lotta all’evasione fiscale. Occorre  attaccare la rendita  finanziaria e immobiliare.

La ricchezza totale nel nostro paese, cioè la somma del valore del patrimonio immobiliare e della ricchezza finanziaria delle famiglie, è infatti circa sei volte il PIL.

Occorre ampliare la base fiscale spostando il prelievo dal lavoro alla rendita, dalle produzioni sociali ed etiche a quelle ecologicamente nocive e socialmente dannose.

È possibile  aumentare le risorse disponibili:

Occorre inoltre una politica del risparmio e della riduzione degli sprechi.

La Cgil nazionale ha quantificato che in ordine ad una possibile politica di riduzione del 10% delle spese  sostenute annualmente dalle finanze pubbliche e dalla società a causa dei costi  delle esternalità negative ( infortuni, rifiuti urbani e industriali, inquinamento, sprechi,  dissesto del territorio, ecomafia, ecc.), si potrebbero  risparmiare   circa 30 miliardi di  euro annui. Quanto si potrebbe  risparmiare nel Lazio? Si presume una cifra non inferire ai 3 miliardi di euro, più di un quarto dell’intero Bilancio  regionale attuale.

 

La responsabilità sociale dell’impresa e il patto di cittadinanza

“ Si definisce irresponsabile  un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge , suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività” ( Luciano Gallino, 2005).

Sembra, questa,  quasi una risposta a quanto teorizzava il premio Nobel  M . Friedman negli anni ’70 quando affermava che “ Il vero dovere sociale  dell’impresa è ottenere i più elevati profitti   producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile”.

I trent’anni che dividono queste due affermazioni sono gli anni dell’egemonia del liberismo e del primato dell’irresponsabilità sociale dell’impresa che fortunatamente oggi comincia ad essere messa in discussione o quanto meno non rappresenta più il senso comune dell’opinione pubblica mondiale.

Tant’è che oggi le imprese, dopo la pubblicazione nel 2001 del Libro Verde della Commissione Europea, fanno a gare per aderire ai canoni della RSI che sollecita comportamenti etici dell’impresa  in campo sociale e ambientale, anche se lascia alla singola impresa  tale decisione e la responsabilità della auto-certificazione etica dei suoi comportamenti.

Si tratta di sollecitare  e  richiamare le imprese ad una coerenza tra le posizioni di principio e i comportamenti pratici anche con iniziative sindacali e in rapporto con i poteri locali.

Per finanziare i beni pubblici e comuni ed allargare l’area della cittadinanza occorre mobilitare risorse sempre più scarse. Il richiamo alla responsabilità sociale dell’impresa, pubblica e privata, può contribuire a finanziare alcuni beni e servizi pubblici, insieme anche alla possibilità di introdurre  tasse di scopo purché queste siano limitate a progetti condivisi all’interno di un patto di cittadinanza da stipulare  tra amministrazione pubblica e cittadini.

L ‘ assessore Causi in una recente intervista ha reso pubbliche  alcune ipotesi, tra le quali la tassa di scopo,  per rispondere alle difficoltà di bilancio del Comune di Roma.

La tassa di scopo  può essere praticabile e accettabile socialmente solo se condivisa dai contribuenti e se questi sono chiamati  preventivamente a decidere  quali beni o servizi finanziare, nonché  a  partecipare  alla loro gestione, al loro   governo  e  controllo.  Si tratta di stabilire le forme e le modalità di una simile procedura e di un simile patto in un confronto aperto e trasparente con i cittadini, istituendo a tale scopo sedi e luoghi decentrati di discussione e confronto pubblico. 

Così come è auspicabile e da sostenere ed estendere l’ipotesi che sembra emergere da parte del Ministero dell’Ambiente, di finanziare a Roma il trasporto pubblico per i dipendenti delle aziende pubbliche, ma anche private, attraverso un contributo ai costi del trasporto casa-lavoro, per contenere il traffico privato e ridurre l’inquinamento e il congestionamento della città.

L’idea di sostenere il finanziamento di alcuni servizi pubblici per i cittadini attraverso l’intervento delle imprese non è nuova.

Di recente alcune camere del lavoro, tra le quali quella di Bologna,  hanno rilanciato il progetto di fondi territoriali  alimentati con risorse delle imprese  per finanziare politiche sociali a favore degli anziani, dell’infanzia, della casa.  Senza generalizzare, si tratta di riprendere il filo di questo discorso  e valutare la possibilità di far proprio questo modello anche da noi, per affermare  in concreto la responsabilità sociale dell’impresa verso  i lavoratori e la città in cui opera, sostenendo e finanziano progetti di coesione e inclusione sociale.

 

 La partecipazione e la rappresentanza per una nuova confederalità

C’è bisogno di innovazione nelle pratiche e nelle culture del movimento sindacale?

La funzione della rappresentanza  del mondo del lavoro è di ostacolo a un progetto di allargamento della sfera della partecipazione?

Se l’innovazione  ancorata a criteri di sostenibilità  sociale, produttiva, ecologica  ha bisogno della partecipazione e del controllo pubblico, di quello che abbiamo definito come nuovo spazio pubblico aperto a soggetti e interessi diversi   sotto la guida pubblica, il problema per noi si pone  nei termini di ancorare la nostra rappresentanza classica ad un progetto  di società e di rappresentanza sociale fondato sulla alleanza tra lavoro e cittadinanza .

In questo senso c’è bisogno fra noi  di innovazione democratica per favorire la nostra apertura all’esterno, ad altre culture, conoscenze e saperi, alle altre pratiche sociali e istanze partecipative che investano le nostre elaborazioni e i nostri processi decisionali, per favorire la  partecipazione dei contesti sociali interessati alle nostre  scelte e alle nostre politiche, senza chiudersi in una malintesa sovranità di organizzazione.

Come abbiamo visto un nuovo modello di sviluppo locale sostenibile e l’affermarsi di una strategia dei beni comuni per un nuovo welfare, presuppone e richiede la mobilitazione di grandi risorse partecipative della società civile, delle organizzazioni di interesse e delle istituzioni locali.

Il sindacato con la sua base sociale di riferimento ancorata al mondo del lavoro, può esercitare una forte influenza positiva nella promozione di uno nuovo spazio pubblico e nell’orientare le risorse strategiche delle comunità locali verso un modello di sviluppo sostenibile e partecipato.

In questo quadro  la nuova confederalità  che intendiamo promuovere deve ridefinirsi, a mio parere,  da luogo della  mediazione tra interessi di diverse categorie, a  sede della costruzione della progettualità sociale e collettiva, collocata tra società e politica, che ridia  un ruolo e un peso  al lavoro oltre la sfera della dimensione economica dei suoi interessi per partecipare alla costruzione del bene comune.

Una nuova rappresentanza confederale del sindacato sul territorio deve insomma  partire da un progetto di sviluppo locale sostenibile, dalla riunificazione del lavoro e dei diritti nell’impresa frantumata, dalla assunzione della questione urbana e della questione sociale per  coniugare il disagio urbano con il  disagio sociale che nasce dal mondo del lavoro e dalle sua crescente svalorizzazione, e   da una strategia della cittadinanza fondata  sulla universalizzazione di alcuni beni pubblici fondamentali .

 Deve aprirsi  a nuovi contenuti e a nuove forme della democrazia e della rappresentanza.

Sono queste  le sfide che dobbiamo affrontare per ricollocare e ridefinire il ruolo del sindacato e del mondo del lavoro oltre la fine del ciclo della produzione fordista e oltre gli schemi della cultura industrialista e contrattualista da cui siamo nati.

 Il processo decisionale  nel quale siamo coinvolti deve rappresentare anche i conflitti che nascono sul terreno non strettamente lavoristico, superando   la separazione tra lavoro e non lavoro, tra lavoro tutelato e lavoro precario, tra produzione  e consumo, tra rappresentanza di interessi legati alla sfera della produzione e  quella legata agli interessi più generali della comunità  locali.

In quanto organizzazione di interesse che trae legittimazione dalla rappresentanza del mondo del lavoro, il sindacato partecipa in modo differente nei diversi ambiti cui è chiamato svolgere il suo ruolo.

Occorre innanzitutto  distinguere e definire i diversi ambiti e spazi del ruolo del sindacato e della sua rappresentanza: la partecipazione non si risolve nella concertazione, la concertazione non annulla il ruolo della contrattazione tra parti sociali.

Attraverso la partecipazione alla sfera pubblica allargata con altri soggetti sociali e istituzionali  il sindacato contribuisce alla definizione e alla progettazione degli obiettivi di sviluppo locale o alla promozione dei beni comuni fondamentali. In questo contesto il sindacato si libera delle sue “scorie” corporative naturali e partecipa di un processo costituente fondativo di una nuova democrazia partecipata .

La concertazione tra parti sociali e istituzionali non può sostituire la contrattazione e la partecipazione. Dove  la si ritenga utile e necessaria,  deve sostenerle entrambe definendo con chiarezza i diversi ambiti  e spazi di intervento.

La contrattazione sociale territoriale e quella aziendale di secondo livello possono  rappresentare il supporto e sostegno adeguato ad una strategia fondata sulla promozione dei beni  pubblici e a forme di nuova democrazia economica che controlli e verifichi la trasparenza e le finalità  del servizio pubblico. La contrattazione della odl e della qualità del servizio, delle professionalità, devono  affermare in questa sede, infatti,  una nuova  etica della responsabilità del lavoro nel rapporto con i cittadini che sono i titolari dei diritti sociali fondamentali e fruitori dei servizi pubblici, partecipando del   controllo democratico della loro  gestione per  assicurare la necessaria trasparenza della loro amministrazione.

La democrazia economica può essere rilanciata non come spazio corporativo, cogestionario  e aziendalista, subalterno alla cultura e alla logica dell’impresa,  ma come spazio partecipativo per esercitare un controllo democratico e sociale sui fini della produzione, sulla qualità dello sviluppo, sulla responsabilità sociale dell’impresa,  assicurare il governo del bene pubblico a sostegno della qualità del servizio, della qualità della prestazione  lavorativa, dei  diritti dei lavoratori e dei cittadini .

L’assunzione di questa dimensione pubblica  e sociale  nel quale rilanciare  una nuova e rinnovata funzione della confederalità nel territorio e nelle città richiede un modello di riorganizzazione del sindacato e della sua rappresentanza  basato su un suo forte decentramento  territoriale  e su un forte rilancio delle camere del lavoro, quale luogo della riunificazione sociale e sindacale del lavoro e della ricomposizione del rapporto tra lavoro e non lavoro, tra disagio sociale e contrattazione sindacale.

Le camere del lavoro possono  diventare protagoniste di questo processo  promovendo l’apertura di  cantieri municipali sociali per  progettare la qualità urbana, promuovere la partecipazione, produrre accordi a sostegno della cittadinanza,  costruire reti per favorire e promuovere lo sviluppo locale.

 

Per una contrattazione orientata alla promozione e alla  difesa dei beni pubblici

La concertazione triangolare classica e la contrattazione sindacale bilaterale sindacati- imprese, non sono strumenti  esclusivi nella gestione dei beni comuni e adeguati ad una loro difesa e valorizzazione.

Una politica sindacale orientata al sostegno e allo sviluppo dei diritti di cittadinanza e alla difesa dei beni pubblici deve far perno sulla centralità della contrattazione sull’odl e dei servizi che faciliti e promuova l’accesso dei cittadini ai beni pubblici fondamentali: la sanità, la mobilità, l’assistenza, la sicurezza, l’acqua, l’istruzione, l’energia e la conoscenza.

Deve affermare il passaggio dalla centralità delle politiche redistributive e di una contrattazione che privilegia l’accesso alle carriere  all’interno di una logica aziendal-corporativa, a una contrattazione finalizzata all’offerta dei servizi fondamentali che incontri le domande e i bisogni dei cittadini e qualifichi in questo senso la professionalità e la qualità della prestazione lavorativa.

Deve coinvolgere  in forme partecipative adeguate le rappresentanze e le associazioni espresse dai cittadini e dai comitati e associazioni che li rappresentano.

Deve promuovere la valorizzazione e ri-legittimazione del lavoro pubblico attraverso una moratoria sulle esternalizzazioni e con politiche di rientro anche graduale di queste funzioni nell’ambito pubblico,  superando nel frattempo le differenze retributive e normative esistenti tra lavoratori esternalizzati e  lavoro pubblico.

Come si misura e si quantifica il valore del lavoro pubblico? Quale è il controvalore economico della disponibilità e dello spirito di servizio che deve informare e caratterizzare il lavoro pubblico?

Si può misurare il valore della sicurezza collettiva, della tutela dell’ambiente, della possibilità di accesso a servizi e diritti e beni  fondamentali  come l’istruzione, la salute, l’acqua, ecc.,  solo  come un costo per le casse pubbliche?

 Questi beni e servizi non possono avere un valore economico, non sono divisibili secondo i parametri del mercato, e non possono avere un prezzo di mercato. Per questo il mercato non può produrli  e venderli come una qualsiasi merce, se non snaturandone l’essenza e selezionandone l’accesso dando ad essi un prezzo di mercato. In tale caso smettono di essere beni pubblici universali.

Per queste ragioni il lavoro pubblico non è un lavoro come gli altri, non può essere equiparato, per il diverso ruolo che occupa in esso la persona e il lavoro,  ad un qualsiasi rapporto di lavoro che produce merci vendibili sul mercato. Chi veicola beni e servizi pubblici deve nutrire il suo lavoro di una responsabilità  e di un impegno sociale ed etico verso gli altri, deve dare al suo lavoro il senso di una missione, motivata da passione e spirito di servizio e non da mere ragioni di natura  economica. È fondamentale  la responsabilità   verso gli altri e la cura del proprio lavoro e la soddisfazione e la gratificazione sociale che ne deriva  quando raggiunge i suoi scopi.

Per questo la vocazione  è l’ ingrediente fondamentale per  affermare il ruolo del lavoro pubblico e la sua mission di servizio per i cittadini. Ciò vale anche per il management pubblico  e per i meccanismi della sua selezione. È intollerabile che sia stata vanificata con il meccanismo dello spoil system  la separazione tra Politica e Gestione che aveva introdotto il principio di terzietà e imparzialità della Pubblica Amministrazione.  La nomina dei manager delle Aziende  Pubbliche, degli organi di gestione  dei servizi pubblici, avvengono ormai  attraverso il meccanismo delle lottizzazioni tra chi vince le elezioni.

È tempo di ripristinare l’autonomia e la responsabilità  della P.A., affidando a vere autorità indipendenti la nomina e la valutazione del management,  con meccanismi e criteri  sottratti alla politica e affidata a procedure di selezione dove contino i curricula, l’esperienza maturata, le pubblicazioni scientifiche, il parere delle associazioni di scopo, sindacali,  e di quelle dei cittadini, che devono avere voce in capitolo in queste scelte e decisioni.

Per queste ragioni sia l’approccio liberista che quello burocratico-statalista  producono estraniamento del lavoro pubblico dai suoi fini, attraverso la riduzione del bene pubblico a merce, oppure attraverso la etero-direzione centralistico-burocratica che aliena il lavoro e la sua prestazione dal suo oggetto , cioè dai suoi  fruitori e dai cittadini. In questi casi il lavoro è solo un costo sia per le casse dello stato e sia   per l’azienda privata, è una elargizione assistenzialista  per lo stato e uno spreco da ridurre per le casse private.

Il processo di estraniamento influenza negativamente nei servizi pubblici il rapporto del lavoro con i cittadini e gli utenti, che diventano spesso  anche per i lavoratori  fastidiose incombenze da sbrigare o da evitare. Nella contrattazione sindacale aziendale questa disposizione si traduce nel non considerare loro dovere rappresentare i diritti dei cittadini nelle scelte legate alla organizzazione dei servizi, in cui non entra quasi mai  il punto di vista e i bisogni degli utenti.

I conflitti sindacali nei servizi anche quelli legati all’odl non hanno quasi mai come posta in gioco una migliore qualità dei servizi e l’ agevolazione  del loro accesso  da parte dei cittadini.

La riqualificazione del pubblico e la valorizzazione del lavoro pubblico presuppongono una nuova e rinnovata loro validazione sociale, un nuovo consenso  che può derivare solo da un diverso rapporto tra lavoratori e cittadini e dalla costruzione di sedi e di luoghi di partecipazione  in cui si inveri una democrazia  economica che affermi la responsabilità sociale del lavoro e del servizio pubblico, che metta i cittadini al centro della prestazione lavorativa , della contrattazione dell’odl e dei servizi.

Le Conferenze di servizi territoriali e aziendali, promosse dai sindacati,  possono essere uno strumento all’interno del quale si creino le basi di una alleanza strategica tra lavoratori e cittadini nella difesa e promozione dei beni pubblici.

Questa alleanza non indebolirebbe la rappresentatività del sindacato  e il suo ruolo contrattuale nelle relazione con l’impresa come temono alcuni. Anzi. Il sindacato ne uscirebbe rafforzato da una validazione e da un consenso sociale più ampio da mettere al servizio di una politica che rafforzi il sistema dei diritti, l’intervento sulla odl e sulla riunificazione del ciclo frantumato dagli appalti e dalle esternalizzazioni, favorendo una politica di valorizzazione del lavoro pubblico e di riunificazione del lavoro.

In questo caso i diritti del lavoro, i diritti di cittadinanza, di difesa e valorizzazione dei beni pubblici si rafforzerebbero a vicenda  in un circolo virtuoso capace di dare ai lavoratori e al sindacato una visibilità e una funzione sociale che rafforza la democrazia e i soggetti collettivi che la presidiano nel territorio.

Una contrattazione orientata alla promozione della cittadinanza e al godimenti universale dei beni pubblici fondamentali non può escludere  dal circuito della rappresentanza e da luoghi e sedi dove vengono assunte le decisioni che riguardano gli interessi generali delle popolazioni locali, i bisogni e i conflitti legati alla sicurezza collettiva, alla salute pubblica, all’ambiente, al territorio.

Nei conflitti ambientali in cui la posta in gioco è la sicurezza collettiva, nelle  scelte localizzative e di politica industriale sui siti energetici  o altamente inquinanti come le discariche di rifiuti, con forte impatto sul territorio e sugli interessi collettivi delle popolazioni locali, il potere decisionale  non può essere avocato, a mio parere, alle relazioni esclusive tra  sindacati, imprese e istituzioni locali,  cioè in una logica concertativa classica, ma deve  aprirsi a un ruolo e una partecipazione dei soggetti rappresentativi delle popolazioni e dei cittadini di quel territorio.

Gli interessi in campo, le scelte oggetto di decisioni hanno, in questi casi, un tale impatto diretto sulla qualità della vita collettiva, sulle generazioni future, sul territorio, che richiedono partecipazione, allargamento della sfera della rappresentanza sociale e un largo consenso pubblico che può trovare riscontro anche nell’allargamento dei tavoli negoziali.

Comunque è interesse dei lavoratori e del sindacato predisporsi ad un rapporto di relazioni aperto al confronto pubblico, senza chiudersi in un ambito ristretto e aziendal-corporativo, che rischia  di indebolire la sua rappresentatività sociale nonché  di produrre decisioni prive di efficacia e di validazione sociale  che possono   isolare i lavoratori dalle popolazioni locali e anche  indebolire il suo autonomo potere contrattuale.

La rappresentanza sindacale può invece esercitarsi all’interno di  un contesto sociale più ampio e generale in quanto gli interessi in gioco oltrepassano  la natura delle relazioni contrattuali tra lavoratori e impresa  ed attengono ad un più generale spazio pubblico all’interno del quale devono trovarsi le soluzioni e le scelte attraverso una  partecipazione democratica dei cittadini e delle loro rappresentanze.

Ciò non esclude e non limita il ruolo e le funzioni del sindacato e dei lavoratori come soggetti che partecipano alla individuazione e alla costruzione delle scelte comuni. Ciò che va escluso è che gli interessi prevalenti in gioco siano solo quelli dell’impresa e dei lavoratori che erogano servizi in una sorta di legittimazione reciproca che estrometta gli interessi collettivi, e con il potere di decidere del  bene comune avocato ad una relazione bilaterale.

 Quelli qui delineati sono temi, proposte  e spunti  di riflessione che testimoniano di una convinzione. Il futuro e la prospettiva di un ruolo e di una funzione emancipatrice e progressista per l’intera umanità  del mondo del lavoro, nostra antica certezza, non è più scritto nella storia come aveva (o avrebbe) “profetizzato” K. Marx . Può essere possibile solo se sapremo riprendere nelle nostre mani  e sulle nostre spalle questa bandiera, se sapremo innovare le nostre culture e le nostre pratiche, se saremo in grado di costruire con le nostre lotte, con la nostra intelligenza, con le nostre risorse morali, un futuro  che parli non solo al mondo del lavoro, ma che guardi agli umili, agli esclusi  dal lavoro e dallo sviluppo, agli oppressi  dalle  guerre e dalla miseria, e che sia  in grado di dialogare e di riconciliarsi con la natura e di preservarla  per le  generazioni  future.

 

 

acastronovi@lazio.cgil.it

 

Roma, Novembre ‘05

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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